Legal procedures for voluntary termination of pregnancy

 

di Alessandro Martini, Esq., Ph.D. [*]

Professore associato di diritto privato nell’Università degli Studi ‘Niccolò Cusano’ di Roma – Avvocato Cassazionista 

 

Accettato: 20 marzo 2023 – Pubblicato: 1° aprile 2023. 

 

Il presente contributo prima di essere pubblicato è stato sottoposto a procedura di referaggio (peer review) in base al regolamento editoriale della Rivista.

 

 

SOMMARIO

 

Abstract

  1. Le procedure di interruzione volontaria della gravidanza previste dalla legge n. 194/1978.
  2. Le procedure illegali di interruzione volontaria della gravidanza
  3. L’interruzione volontaria della gravidanza e la tutela del concepito.
  4. Le modalità di esecuzione delle procedure di interruzione volontaria della gravidanza.
  5. I numeri dell’interruzione volontaria della gravidanza.

Note legali

 

Per favore citate questo articolo nel seguente modo:

Martini, A. “Le procedure legali di interruzione volontaria della gravidanza”. Medicina e Scienze Umane, 2023, no. 1. https://www.medicinaescienzeumane.com/

 

oppure

 

Please cite this article as:

Martini, A. Legal procedures for voluntary termination of pregnancy. Medicina e Scienze Umane, 2023 (1). https://www.medicinaescienzeumane.com/

 

Abstract

The essay examines the voluntary termination of pregnancy procedures that can take place according to the Act no. 194/1978 which establishes deadlines and circumstances, and those which, in case of violation of the law, constitute a crime.

The paper also analyzes the legal position of the conceived, not yet born, and of the mother who requests the voluntary interruption of the pregnancy and highlights how the law and jurisprudence intended to achieve a balance between these opposing positions by recognizing the mother not a «right to abortion», but a «therapeutic self-determination», and by ensuring protection for the conceived or, according to some, a «right to be born».

The modalities of execution of the procedures, the duties of the doctor, his possible liability for damages from «wrongful birth» and the pharmacological or surgical method with which these procedures are practiced are then examined.

Finally, a brief summary of the data that the Ministry of Health published in 2022 on voluntary termination of pregnancy is presented.

 

Keywords

Act no. 194/1978; voluntary termination of pregnancy; conceived.

 

 

1. Le procedure di interruzione volontaria della gravidanza previste dalla legge n. 194/1978.

 

L’interruzione volontaria della gravidanza (I.V.G.) è una procedura prevista e regolata, come è noto, dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”[1] la quale stabilisce, fra l’altro, tempi e circostanze per la richiesta di questa pratica che nel linguaggio comune viene di solito chiamata “aborto” per indicare la morte del prodotto del concepimento.

Nella legge citata, tuttavia, l’espressione “interruzione di gravidanza” viene utilizzata non solo come sinonimo di aborto, bensì anche in senso più ampio per comprendere il parto prematuro, come nell’art. 7, comma 3, e, in generale, nelle norme che disciplinano le procedure (artt. 8, 9, 10, 12 e 13) (v. infra par. 4) [2].

La l. n. 194/1978 qui in esame disciplina tre distinte ipotesi di I.V.G. a seconda se l’intervento sia effettuato nei primi o dopo i novanta giorni dall’inizio della gravidanza ovvero nel caso di imminente pericolo di vita della donna gestante fissando, da un lato, condizioni sempre più stringenti con il progressivo sviluppo del feto e, dall’altro lato, proteggendo la vita e la salute della gestante.

La prima ipotesi, prevista dall’art. 4 l. n. 194/1978, consente la I.V.G. se «entro i primi novanta giorni, la donna […] accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito […]».

Il termine di novanta giorni decorre dall’inizio della «gravidanza» che, in mancanza di ulteriori specificazioni, è da intendersi come data dell’ultima mestruazione e non come quella in cui è presumibilmente avvenuto il concepimento[3]; inoltre, entro questo termine la I.V.G. deve essere non già soltanto richiesta, bensì anche effettuata[4].

Al riguardo la giurisprudenza, pronunciandosi sulla c.d. “pillola del giorno dopo” ritenuta non un farmaco abortivo, bensì un semplice contraccettivo perché incide sull’ovulazione sottraendosi così alla disciplina della I.V.G. prevista dalla l. n. 194/1978, ha precisato che dall’esame sistematico delle norme contenute nella citata legge «il legislatore abbia inteso quale evento interruttivo della gravidanza quello che interviene in una fase successiva all’annidamento dell’ovulo nell’utero materno», come anche conferma l’art. 8 l. cit. (v. infra par. 4) che, nel prevedere le modalità interruttive della gravidanza e nell’imporre l’effettuazione con l’intervento di un medico specialista ed all’interno di strutture ospedaliere o case di cura autorizzate, fa riferimento a «circostanze non peculiari alle metodiche anticoncezionali i cui effetti si esplicano in una fase anteriore all’annidamento dell’ovulo»[5].

Dando uno sguardo ad altri sistemi giuridici, in Germania è invece il Codice penale (Strafgesetzbuch-StGB) a stabilire, dopo aver punito l’interruzione della gravidanza (Schwangerschaftsabbruch), che «[L]e azioni che hanno effetto prima del completamento dell’annidamento dell’ovulo fecondato nell’utero non sono considerate un aborto ai sensi di questa legge» (§ 218, Abs1, Satz 2StGB).

Ai fini della legittimità dell’intervento, l’art. 4 l. n. 194/1978 fa espresso riferimento ad un «serio pericolo» per la salute fisica o psichica della gestante che può derivare sia dalla prosecuzione della gravidanza, sia dal parto, sia dalla maternità.

Il «serio pericolo», deve poi essere determinato da «stati», «condizioni», «circostanze» e «previsioni» che il legislatore elenca alternativamente: «stato di salute», «condizioni economiche, o sociali o familiari», «circostanze in cui avvenuto il concepimento» e «previsioni di anomalie o malformazioni del concepito».

Queste “cause” di pericolo attengono sia ad aspetti patologici, caratterizzando così l’aborto come “terapeutico”, sia anche ad aspetti non patologici e del tutto esterni che peraltro il legislatore non specifica, come potrebbero essere la violenza carnale, l’incesto o l’infermità di mente.

In particolare il «serio pericolo per la […] salute psichica» della donna per cause legate «alle sue condizioni […] sociali o familiari» (art. 4 l. cit.) lascia ampia libertà alla gestante di ricorrere alla I.V.G. sicché in concreto questa procedura può trovare giustificazione anche quando la salute psichica si ritenga compromessa per motivazioni molto personali e poco apprezzabili.

Più in generale è tutto il procedimento previsto dalla l. n. 194/1978 per ottenere la I.V.G. nei primi novanta giorni (v. infra par. 4) ad apparire nella sostanza non in grado di rendere davvero consapevole la scelta della gestante[6].

La seconda ipotesi, prevista all’art. 6 l. n. 194/1978, consente la I.V.G. «dopo i primi novanta giorni

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».

Il termine dei novanta giorni, decorrente dall’inizio della gravidanza nel senso già prima individuato, limita la legittimità della richiesta soltanto in due ipotesi che fanno riferimento non ad un «serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna» come nel caso della I.G.V. praticata entro i primi novanta giorni prima esaminato (art. 4 l. cit.), bensì ad un «grave pericolo» che deve incidere o sulla «vita della donna», se derivante dalla gravidanza o dal parto, oppure sulla «salute fisica o psichica della donna», se derivante da processi patologici, ossia da malattie in senso proprio.

L’interruzione volontaria della gravidanza è quindi legittima soltanto se ricorrono condizioni di natura sanitaria da accertarsi accuratamente in base alla legge (art. 7, comma 1, l. cit.; v. infra par. 4), e perciò la fattispecie in questione è indicata propriamente come “aborto terapeutico” di cui la legge distingue, come visto, due casi.

Il primo caso riguarda «un grave pericolo per la vita della donna» derivante dalla gravidanza o dal parto (art. 6, lett. a), l. cit.) e ricorre quando la gestante ha malattie preesistenti, sopravvenute o proprie della gravidanza che possano causare la sua morte o durante il corso della gravidanza, benché il parto possa essere non rischioso, ovvero al momento del parto, benché la prosecuzione della gravidanza possa essere non rischiosa.

Il secondo caso riguarda «un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» derivante da processi patologici «tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro» (art. 6, lett. b), l. cit.).

I processi patologici che consentono l’aborto terapeutico sono di solito malattie preesistenti alla gestazione (es. diabete non compensato, gravi cardiopatie, ecc.) e che con la prosecuzione della gravidanza possono subire un peggioramento.

Come visto, in questi «processi patologici» la legge ricomprende, fra gli altri (cfr. l’espressione «tra cui» dell’art. 6, lett. b), l. cit.) «quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro» e, al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che la donna possa ricorrere alla I.V.G. oltre il novantesimo giorno dalla gravidanza anche nel caso di processi patologici di cui sia affetta la gestante e che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinano nella gestante stessa un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, e che devono essere accertate in concreto e caso per caso ed a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione siano già prodotte e risultino accertate[7].

Qualora, invece, sussistano anomalie o malformazioni del feto che determino un pericolo non grave per la salute della donna, non può essere richiesto un aborto “eugenetico” o “selettivo” ossia allo scopo di evitare la nascita di un bambino non sano e, di conseguenza, per selezionare soltanto “i migliori” perché la l. n. 194/1978 esclude che la I.V.G. possa utilizzarsi come mezzo di controllo delle nascite (cfr. art. 1, comma 2, l. n. 194/1978; v. infra par. 3)[8].

Più in generale la giurisprudenza ha ribadito che la I.V.G. è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, «serio» (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o «grave» (successivamente a tale termine) e che le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano non già in sé e per sé considerate, ossia con riferimento al nascituro, ma esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante alla quale spetta la scelta di abortire[9].

In relazione all’ipotesi di I.V.G. dopo i primi novanta giorni qui in esame, la legge n. 194/1978 pone un limite stabilendo che «[Q]uando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto» (art. 7, comma 3).

Per possibilità di vita autonoma del feto si intende quel «grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall’ambiente materno»[10] e, ricorrendo questa condizione, la I.G.V. è legittima soltanto quando la gravidanza o il parto comportino «un grave pericolo per la vita della donna» (art. 6, lett. a), l. cit.).

La terza ipotesi, prevista all’art. 7, comma 2, l. n. 194/1978, consente la I.V.G. quando questa «si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna» e in tal caso «l’intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste […] e al di fuori delle sedi» di cui all’art. 8 (v. infra par. 4) ed «il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale».

La fattispecie in questione qualifica il pericolo non «serio» o «grave», come visto nelle precedenti ipotesi, bensì «imminente» e riferito alla «vita della donna» come peraltro si è visto anche in relazione al caso di cui all’art. 6, lett. a), l. cit. prima esaminato.

Tuttavia, a differenza di quest’ultima ipotesi, il caso previsto dall’art. 7, comma 2, l. cit., riguarda una situazione caratterizzata dalla presenza di una patologia così grave da determinare l’intervento medico tempestivo, esonerando il personale medico dall’espletamento di ogni procedura autorizzativa.

 

 

2. Le procedure illegali di interruzione volontaria della gravidanza

 

Se la I.V.G. è praticata senza l’osservanza delle norme stabilite dalla l. n. 194/1978 (artt. 5 e 8), si integra la fattispecie di reato prevista all’art. 19 l. cit. che punisce «chiunque» alla pena della reclusione sino a tre anni, mentre la donna è punita con la multa fino a lire centomila (commi 1 e 2)[11].

Se invece la I.V.G. avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dall’art. 6, lett. a) e b), l. cit., o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’art. 7 l. cit., «chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni» (art. 19, comma 3, l. cit.), mentre «[L]a donna è punita con la reclusione sino a sei mesi» (art. 19, comma 4, l. cit.).

Inoltre, l’art. 19, comma 5, l. cit. aggiunge che quando la I.V.G. avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l’osservanza delle modalità previste dagli artt. 12 e 13 l. cit., «chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile».

Ancora, il medesimo art. 19, comma 6, l. cit. prevede che «[S]e dai fatti previsti dai commi precedenti deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita».

Infine, l’articolo citato, prevede che «Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma» (art. 19, comma 7, l. cit.).

In senso analogo in Germania il Codice penale (Strafgesetzbuch-StGB) prevede che l’aborto – su cui non è più vietato dare informazioni dopo l’abrogazione della norma che proibiva questa attività (§ 219a) – è un reato punito con la reclusione fino a tre anni o con la multa, e punibile con la reclusione fino a un anno o la multa è anche la donna incinta che abbia commesso il fatto (§ 218 StGB) il quale, tuttavia, viene scriminato in alcune ipotesi previste dallo stesso codice (§ 218a StGB).

Tornando al nostro ordinamento, altre sanzioni contro l’inosservanza delle norme stabilite per la pratica della I.V.G. sono previste nel Codice penale nel quale il d. lgs. 1° marzo 2018, n. 21 (c.d. decreto sulla riserva di codice), ha inserito il nuovo Capo I-bis denominato “Delitti contro la maternità” (art. 2, comma 1, lett. e)[12] del Titolo XII del Libro II, prevedendo due reati: “Interruzione colposa di gravidanza” (art. 593-bis c.p.)[13] e “Interruzione di gravidanza non consensuale” (art. 593-ter c.p.)[14] che riproducono il contenuto dei corrispondenti reati già previsti nella l. n. 194/1978 (artt. 17 e 18) che sono stati abrogati (art. 7, comma 1, lett. e), d. lgs. n. 21/2018).

I reati ora ricordati sono finalizzati a tutelare la vita prenatale del feto durante la gravidanza ovvero, a nostro avviso, il «diritto a nascere» del concepito (v. infra par. 3), come peraltro è espressamente previsto nel Codice penale tedesco secondo cui «[…] das Ungeborene in jedem Stadium der Schwangerschaft […] ein eigenes Recht auf Leben hat […]» (§ 219, Abs 1, Satz 2, StGB).

Se invece la morte del feto sopraggiunge a travaglio iniziato e, cioè, quando, lo stesso abbia raggiunto la vita autonoma, secondo la giurisprudenza si configura il diverso e più grave reato di omicidio colposo (art. 589 c.p.) il quale protegge la vita umana fin dal suo momento iniziale sicché al “feto nascente” può ritenersi che il legislatore abbia riconosciuto «la qualità di uomo vero e proprio»[15].

 

 

3. L’interruzione volontaria della gravidanza e la tutela del concepito.

 

Dal quadro normativo qui brevemente delineato emerge la ratio della l. n. 194/1978 che, se da un lato «garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile» (art. 1, comma 1) e, cioè, all’autodeterminazione delle scelte procreative, ricollega poi, una volta avvenuto il concepimento, la I.V.G. esclusivamente alle ipotesi normativamente previste in cui sussista un pericolo «serio» (art. 4) «grave» (art. 6) o «imminente» (art. 7) per la salute o per la vita della gestante.

In definitiva il legislatore, in aderenza alla nota sentenza della Corte costituzionale del 18 febbraio 1975, n. 27[16] che ha fissato il principio secondo cui «l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito» e quello secondo cui «non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare», ha stabilito che nel bilanciamento tra il valore e la tutela della salute della donna e la tutela del concepito, alla madre è consentito, in presenza delle condizioni richieste e del pericolo per la sua vita o per la sua salute, di ottenere l’interruzione volontaria della gravidanza.

La legge n. 194/1978, come ha poi chiarito la Corte costituzionale[17], è una legge ordinaria «a contenuto costituzionalmente vincolato» che, nel realizzare il bilanciamento dei valori di cui si è detto, può giustificare il sacrificio del concepito, mentre il riconoscimento del «diritto alla procreazione cosciente e responsabile» (art. 1, comma 1) non può essere confuso con il riconoscimento di un diritto all’interruzione volontaria della gravidanza come mezzo per il controllo delle nascite.

In proposito la dottrina ha subito rilevato che «la legge non è volta a tutelare l’interruzione della gravidanza come esercizio della libertà civile e come espressione di un valore positivo della persona», e che la stessa «non ha dunque accettato l’esaltazione ideologica dell’aborto ma, come si evince anche dai lavori preparatori, essa ha piuttosto inteso ovviare alla piaga dell’aborto clandestino»[18].

Dal punto di vista delle situazioni giuridiche la “contrapposizione” fra concepito e gestante potrebbe così delinearsi[19].

Il concepito è il “soggetto” titolare del diritto alla vita da intendersi come «diritto a nascere» in quanto riferito a colui che si trova in una particolare situazione giuridica, quella di non essere nato e, dunque, non ancora persona, e questo diritto non è assoluto perché nei casi determinati dal legislatore è destinato a soccombere rispetto ad altri diritti ritenuti prevalenti.

A ciò non osta il disposto dell’art. 1, comma 1, c.c. che ricollega alla nascita l’acquisto della capacità giuridica considerato che una lettura costituzionalmente orientata di questa capacità[20], svolta anche alla luce dei dati normativi – fra i quali quello che espressamente qualifica come «soggetto» il «concepito» (cfr. art. 1, comma 1, legge 19 febbraio 2004, n. 40 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”) – e delle elaborazioni giurisprudenziali, induce a qualificare il concepito come soggetto titolare di diritti fondamentali[21].

La gestante è il soggetto che può richiedere la I.V.G. e, cioè, il sacrificio del concepito soltanto alla ricorrenza delle condizioni e secondo le procedure stabilite dalla legge il cui scopo è quello di offrire informazioni alla donna affinché possa formarsi una cosciente volontà, in mancanza delle quali l’intervento è, come visto (supra par. 2), penalmente illecito (art. 19 l. n. 194/1978).

La richiesta di I.V.G. della gestante potrebbe allora configurarsi non come autodeterminazione procreativa, bensì come «autodeterminazione terapeutica»[22], ossia come scelta della donna di sacrificare la vita del concepito per salvaguardare, secondo la legge che fissa tempi, circostanze e modalità, la sua vita o la sua salute.

In questa prospettiva appare difficile parlare nel nostro ordinamento in senso tecnico di un «diritto di abortire» in capo alla gestante[23] o di un «diritto all’aborto»[24] espressioni che, invece, si ritrovano soprattutto nei sistemi di common law ove si parla di «right to abortion».

Al riguardo occorre ricordare il caso Dobbs del 24 giugno 2022 deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America[25] che ha escluso la natura costituzionale del right to abortion e ripristinato, di conseguenza, la competenza degli Stati ad approvare leggi che possano limitare o proibire tale diritto: «[…] the Constitution does not confer a right to abortion. Roe and Casey must be overruled, and the authority to regulate abortion must be returned to the people and their elected representatives» (p. 69).

La citata decisione ha così espressamente disposto l’overruling di due precedenti in materia[26].

Il primo precedente è rappresentato della sentenza del caso Roe del 22 gennaio 1973[27] secondo cui il diritto all’aborto veniva ricompreso nel right to privacy considerato come un diritto fondamentale in base al XIV emendamento della Costituzione americana, anche noto come Due Process Clause, che vieta ad ogni Stato di privare «any person of life, liberty or property, without due process of law».

Precisamente la citata decisione stabilisce che «[T]his right of privacy, whether it be founded in the Fourteenth Amendment’s concept of personal liberty and restrictions upon state action, as we feel it is, or, as the District Court determined, in the Ninth Amendment’s reservation of rights to the people, is broad enough to encompass a woman’s decision whether or not to terminate her pregnancy» (p. 153).

Il secondo precedente è rappresentato dalla sentenza del caso Casey del 29 giugno 1992[28] secondo cui la decisione di abortire della donna veniva considerata una liberty fondamentale garantita nella Due Process Clause: «[C]onstitutional protection of the woman’s decision to terminate her pregnancy derives from the Due Process Clause of the Fourteenth Amendment. It declares that no State shall “deprive any person of life, liberty, or property, without due process of law.” The controlling word in the cases before us is “liberty”» (p. 846).

 

 

4. Le modalità di esecuzione delle procedure di interruzione volontaria della gravidanza.

 

In presenza delle circostanze sopra evidenziate (v. supra par. 1), nei primi novanta giorni dalla gravidanza la donna richiedente la I.V.G. può rivolgersi a «un consultorio pubblico» (ente istituito ai sensi dell’art. 2, lett. a), legge 29 luglio 1975, n. 405 “Istituzione dei consultori familiari”) oppure ad «una struttura sociosanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia» (art. 4 l. n. 194/1978).

La possibile scelta fra questi tre soggetti, compreso anche al medico di fiducia che potrebbe non avere un’adeguata preparazione specialistica in merito alla I.V.G.[29], si muove nella prospettiva di ampliare o, almeno, di non ostacolare il ricorso all’aborto.

A questi soggetti la legge citata prescrive specifici compiti.

Il consultorio e la struttura sociosanitaria, «oltre a garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto» (art. 5, comma 1, l. cit.).

Il medico di fiducia della donna, «compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell’esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie» (art. 5, comma 2, l. cit.).

Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure previste dagli artt. 5 e 7 l. cit., nonché agli interventi di I.V.G. quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione, ma in tal essi sono esonerati «dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento (art. 9, commi 1 e 3, l. cit.).

L’inadempimento o l’omissione delle prestazioni prescritte dalla legge n. 194/1978 importa responsabilità civile a carico del debitore.

Precisamente il medico è tenuto al risarcimento del danno da «nascita indesiderata» (c.d. wrongful birth) sofferto dal genitore – anche il padre[30] – che dimostri la mancata o errata diagnosi di malformazioni del feto, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna e la conseguente perdita della gestante della possibilità di procedere alla interruzione della gravidanza che avrebbe potuto richiedere sensi dell’art. 6, lett. b), l. cit. se fosse stata correttamente informata[31].

In particolare l’onere di provare che la madre si sarebbe determinata alla I.V.G. può essere assolto mediante una presunzione semplice (praesumptio hominis) in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova (es.: il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o il suo orientamento, già in precedenza espresso per la scelta abortiva), mentre grava sul medico la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualche ragione personale[32].

La legge delinea poi una diversa procedura in base alla sussistenza o meno di casi di urgenza.

Precisamente «[Q]uando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza» (art. 5, comma 3, l. cit.).

Questo certificato costituisce «titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento e, se necessario, il ricovero» (art. 8, comma 8, l. cit.).

Secondo la giurisprudenza, l’urgenza dell’intervento interruttivo può anche consistere nell’imminenza dello scadere del termine dei primi novanta giorni di gravidanza previsto dall’art. 4 della stessa legge[33].

Diversamente, se non ricorrono casi di urgenza «al termine dell’incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza […] le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole […], presso una delle sedi autorizzate» (art. 5, comma 4, l. cit.).

In tal caso la legge prevede la c.d. settimana del ripensamento al termine del quale il documento consegnato alla donna costituisce «titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento e, se necessario, il ricovero (art. 8, comma 8, l. cit.).

«L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale» (art. 8, comma 1, l. cit.), ossia un ospedale fra quelli indicati dall’art. 20, legge 12 febbraio 1968, n. 132, c.d. legge Mariotti – dal nome dell’allora Ministro della Sanità, che nella prospettiva di assicurare l’assistenza ospedaliera a tutti i cittadini, definiva alcuni parametri distinguendo gli ospedali in generali, specializzati, per lungodegenti e convalescenti – ed il medico «verifica anche l’inesistenza di controindicazioni sanitarie» (art. 8, comma 1, l. n. 194/1978).

«Gli interventi possono essere altresì praticati presso gli ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti» ecclesiastici civilmente riconosciuti che esercitano l’assistenza ospedaliera (art. 1, comma 6, legge n. 132/1968), nonché presso le altre istituzioni previste dalla normativa (legge 26 novembre 1973, n. 817 e decreto del Presidente della Repubblica 18 giugno 1958, n. 754), «sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta» (art. 8, comma 2, l. n. 194/1978).

«Nei primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza può essere praticata anche presso case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico-ginecologici» (art. 8, comma 3, l. cit.), nei limiti stabiliti dal Ministero della Salute che deve fissare, nella misura non inferiore al 20 la percentuale di I.V.G. «in rapporto al totale degli interventi operatori eseguiti nell’anno precedente presso la stessa casa di cura» e la percentuale di giorni di degenza consentiti per gli interventi di I.V.G. «rispetto al totale dei giorni di degenza che nell’anno precedente si sono avuti in relazione alle convenzioni con la regione» (art. 8, commi 4 e 5, l. cit.).

Dopo i primi novanta giorni i processi patologici «vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell’ente ospedaliero in cui deve praticarsi l’intervento, che ne certifica l’esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell’ospedale per l’intervento da praticarsi immediatamente» (art. 7, comma 1, l. cit.).

Infine, quando la I.V.G. «si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna l’intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste» dall’art. appena citato «e al di fuori delle sedi» stabilite nel successivo art. 8 (art. 7, comma 2, prima parte, l. cit.), e «[I]n questi casi, il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale» (art. 7, comma 2, seconda parte, l. cit.).

Sotto il profilo tecnico, la I.V.G. viene praticata secondo due diversi metodi: quello farmacologico e quello chirurgico.

Il metodo farmacologico prevede la somministrazione di due diversi principi attivi a distanza di 48 ore l’uno dall’altro: il primo è il mifepristone, conosciuto come RU486, e il secondo è una prostaglandina.

In materia occorre osservare le Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”, emanate con circolare il 4 agosto 2020 dal Ministero della Salute e pubblicate il 12 agosto 2020[34].

Le “Linee di indirizzo” modificano le precedenti modalità di esecuzione del metodo farmacologico e stabiliscono, fra l’altro, che questo possa essere effettuato esclusivamente presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate e funzionalmente collegate all’ospedale e autorizzate dalla Regione, nonché in consultori oppure day hospital.

Il metodo chirurgico si esegue in anestesia generale ovvero in anestesia locale e deve essere effettuato in strutture sanitarie pubbliche o private convenzionate e autorizzate dalla Regione.

Le procedure di I.V.G. praticate nelle strutture pubbliche o convenzionate autorizzate sono gratuite (art. 10 l. n. 194/1978), mentre resta a carico della gestante il pagamento del ticket per le analisi e per i farmaci prescritti dopo l’intervento.

La gratuita prevista dal legislatore si spiega con l’esigenza di assicurare il ricorso alla I.V.G. indipendentemente dalle condizioni economiche della gestante e di evitare il ricorso ad aborti clandestini che, prima dell’entrata in vigore della legge qui esame, erano assai diffusi con gravi rischi per la vita e la salute della donna[35].

 

 

5. I numeri dell’interruzione volontaria della gravidanza.

 

La Relazione del Ministro della Salute del 2022 sull’attuazione della l. n. 194/1978[36], contenente gli ultimi dati disponibili riferiti all’anno 2020, ci dà conto di quanto e come le procedure di I.V.G. siano in concreto praticate.

Le procedure di I.V.G. effettuate in Italia sono state 66.413, numero che conferma il continuo andamento in diminuzione dei casi (-9,3 % rispetto al 2019) a partire dal 1983, anno in cui si è registrato il più alto numero di casi (234.801).

Il tasso di abortività, ossia il numero di I.V.G. per 1.000 donne di età 15-49 anni residenti in Italia, considerato il più accurato indicatore per verificare il ricorso alla I.V.G., conferma il trend in diminuzione in quanto nel 2020 risulta pari a 5,4 per 1.000 (-6,7% rispetto al 2019).

Secondo questi dati, in definitiva, l’Italia risulta tra i Paesi con i più bassi tassi di abortività al mondo e questo dato è in continua diminuzione a partire dal 1983.

Il rapporto di abortività, ossia il numero di I.V.G. per 1.000 nati vivi, è risultato pari a 165,9 per 1.000 nel 2020 (corrispondente al 16,6 per 100 nati vivi) con una riduzione del 4,9% rispetto al 2019 quando era pari a 174,5 per 1.000 nati vivi.

Il numero di I.V.G. effettuate ha subito un decremento in tutte le fasce di età rispetto al 2019 e in particolare per le donne con età compresa fra i 25 e i 34 anni e per le minorenni il cui tasso di abortività è 1,9 per 1.000 (nel 2019 era 2,3 per 1.000) e il numero totale degli interventi (1.602) è pari al 2,4% del totale.

Il numero di donne straniere che ricorrono alla I.V.G. è il 28,5% del totale degli interventi portati a termine, in diminuzione rispetto al 29,2% nel 2019, e il tasso di abortività è 12,0 per 1.000 donne.

In relazione allo stato civile, fermo restando che la quota di coniugate è in diminuzione rispetto alla popolazione generale, le donne che hanno eseguito la I.V.G. evidenzia che per le italiane la percentuale delle nubili (63,1%) è in aumento e superiore a quella delle coniugate (31,1%), mentre per le straniere le percentuali nei due gruppi è molto simile (49,1% le coniugate, 45,4% le nubili).

Con riguardo al titolo di studio, le donne che hanno eseguito la I.V.G. nel 2020, per le italiane prevale la percentuale di donne in possesso di licenza media superiore (49,3%) e per le straniere quella di donne in possesso di licenza media (43,0%).

Tra le donne italiane che hanno eseguito la I.V.G. il 49,9% hanno un’occupazione (era il 50,2% nel 2019), mentre tra le donne straniere la percentuale è del 38,3% (era il 39,2% nel 2019).

La percentuale di I.V.G. effettuate da donne con precedente esperienza abortiva è in continua diminuzione, e ciò probabilmente per la diffusione e l’uso di efficaci metodi contraccettivi, e nel 2020 è stata pari al 24,5%, valore non troppo diverso dal 25,2% nel 2019.

Nel 2020 si è riscontrato un incremento del ricorso alla procedura d’urgenza come già rilevato negli anni precedenti: il ricorso a tale procedura è avvenuto nel 25,0% delle procedure di I.V.G. nel 2020 (nel 2019 la percentuale era pari al 23,5%) e le percentuali superiori alla media nazionale si sono avute, come negli anni passati, in Puglia (45,9%), Lazio (45,8%), Piemonte (45,5%), Toscana (33,5%) ed Emilia-Romagna (30,9%).

Quanto all’epoca gestazionale, il 56,0% degli interventi è stato effettuato entro le 8 settimane di gestazione (rispetto al 53,5% del 2019), il 26,5% a 9-10 settimane, il 10,9% a 11-12 settimane e il 6,5% dopo la dodicesima settimana, mentre nel 2019 era pari al 5,4%.

Quanto alle Regioni in cui viene praticata la I.V.G. in rapporto alla popolazione, la Liguria è la Regione in cui vengono effettuati più interventi di I.V.G. (7,4 per mille), quasi il doppio rispetto alla Basilicata (3,8 per mille), Regione in cui se ne effettuano di meno.

Infine, relativamente al tipo di procedura utilizzata, dopo la pubblicazione delle “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine” del 12 agosto 2020 (v. supra par. 4), è in costante aumento il ricorso all’aborto farmacologico.

Nel 2020 il mifepristone con successiva somministrazione di prostaglandine è stato utilizzato nel 31,9% dei casi, rispetto al 24,9% del 2019 e al 20,8% del 2018, pur variando molto fra le Regioni: si passa dall’1,9% del Molise ad oltre il 50% in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Basilicata.

 

____________________________

[*]  Associate Professor of Private Law at the ‘Niccolò Cusano’ University of Rome; Doctor of research (Ph.D.); Attorney at Law (Esq.).

[1] Per un recente esame della l. n. 194/1978 cfr. Aa. Vv., Legge 22 maggio 1978, n. 194. Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, in G. Di Rosa (a cura di), Della famiglia, in E. Gabrielli (dir. da), Commentario del codice civileLeggi complementari, II, Utet, Torino, 2018, p. 323 ss.; G. Di Rosa, L’interruzione volontaria della gravidanza, in A. Cagnazzo (a cura di), Trattato di diritto e bioetica, Esi, Napoli, 2017, p. 497 ss.

[2] Cfr. M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza. Commentario sistematico alla legge 22.5.1978 n. 194, Cedam, Padova, 1992, p. 79 ss.

[3] Così Trib. Padova, 19 novembre 1985, in Foro it., 1988, II, c. 565 ss.

[4] In tal senso cfr. C. Casini e F. Cieri, La nuova disciplina dell’aborto (Commento alla legge 22.5.1978 n. 194), Cedam, Padova, 1978, p. 142; M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza. Commentario sistematico alla legge 22.5.1978 n. 194, cit., p. 132.

[5] Cfr. TAR Lazio, 12 ottobre 2001, n. 8465, in Giust. civ., 2002, 11, p. 2977 ss., che accoglie parzialmente il ricorso proposto dal Movimento della Vita Italiano e dal Forum delle Associazioni Familiari contro il decreto del Ministero della Sanità (D.M. AIC/UAC n. 510/2000 del 26.9.2000) che autorizzava l’immissione in commercio della c.d. “pillola del giorno dopo” a base di Levonogestrel (Norlevo) per non esaustività delle informazioni contenute nel relativo foglio illustrativo. Il 4 febbraio 2014 l’AIFA ha pubblicato la revisione della scheda tecnica del farmaco Norlevo che sostituisce l’originaria dicitura «il farmaco potrebbe anche impedire l’impianto» con quella «inibisce o ritarda l’ovulazione» così chiarendo la natura contraccettiva della “pillola del giorno dopo”. Di recente cfr. Cons. Stato, 19 aprile 2022, n. 2928, in Nuova giur. civ. comm, 2022, 6, I, p. 1317 ss. che, in riferimento alla c.d. “pillola dei cinque giorni dopo” (ElleOne), ha avuto occasione di evidenziare come il farmaco che agisca prima dell’impianto dell’embrione abbia natura antiovulatoria e che, pertanto, la sua somministrazione non viola le norme stabilite dalla l. n. 194/1978.

[6] Sull’idea che l’art. 4 l. n. 194/1978 legittimi, nella sua pratica applicazione, una incondizionata libera volontà della gestante sul destino del feto v. G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv. dir. civ., 1982, 5, I, p. 515; P. Nuvolone, Gravidanza (interruzione della). Diritto penale e costituzionale, voce in Noviss. Dig. it., App. III, Utet, Torino, 1982, p. 1121.

[7] Cfr. Cass., 15 gennaio 2021, n. 653, in Giur. it., 2021, 11, p. 2328 ss.

[8] Cfr. Cass., 11 aprile 2017, n. 9251, in Danno e resp., 2017, 5, p. 549 ss. secondo cui la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna per richiedere la I.V.G. ai sensi dell’art. 6, lett. b), l. n. 194/1978 e, quindi, dall’omessa diagnosi dell’anomalia fetale non può derivare un danno risarcibile. Per l’inammissibilità dell’aborto “eugenetico” cfr. già C. Casini e F. Cieri, La nuova disciplina dell’aborto (Commento alla legge 22.5.1978 n. 194), cit., p. 130; M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza. Commentario sistematico alla legge 22.5.1978 n. 194, cit., p. 178.

[9] Cfr. Cass., 29 luglio 2004, n. 14488, in Corr. giur., 2004, 11, p. 1431 ss. la quale chiarisce che il concepito, anche se presenti gravi anomalie genetiche, non è titolare di un “diritto a non nascere” posto che la l. n. 194/1978 non prevede l’aborto eugenetico come diritto del nascituro, da far valere successivamente alla nascita, sotto il profilo risarcitorio per il mancato esercizio.

[10] Cfr. Cass., 4 gennaio 2010, n. 13, in Danno e resp., 2010, 4, p. 404 ss.

[11] Cfr. Cass., 29 luglio 2004, n. 14488, cit., secondo cui «Anche a seguito della l. n. 194 del 1978 l’interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli art. 4 e 6 l. n. 194 del 1978, accertate nei termini di cui agli art. 5 e 8, costituisce reato e ciò anche per la stessa gestante (art. 19 l. n. 194 del 1978)».

[12] Per un esame di questo nuovo Capo I-bis e dei relativi delitti cfr. F. Mantovani, Diritto penale, Parte speciale, I, Delitti contro la persona, Cedam, Padova, 2022, p. 209 ss.

[13] L’art. 593-bis c.p., rubricato “Interruzione colposa di gravidanza”, prevede che:

«Chiunque cagiona a una donna per colpa l’interruzione della gravidanza è punito con la reclusione da tre mesi a due anni.

Chiunque cagiona a una donna per colpa un parto prematuro è punito con la pena prevista dal primo comma, diminuita fino alla metà.

Nei casi previsti dal primo e dal secondo comma, se il fatto è commesso con la violazione delle norme poste a tutela del lavoro la pena è aumentata».

[14] L’art. 593-ter c.p., rubricato “Interruzione di gravidanza non consensuale”, prevede che:

«Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno.

La stessa pena si applica a chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna.

Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l’acceleramento del parto.

Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave quest’ultima pena è diminuita.

Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto».

[15] In tal senso cfr. Cass. pen., 20 giugno 2019, n. 27539, in Fam. e dir., 2019, 10, p. 919 ss.

[16] Cfr. Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27, in Foro it., 1975, I, c. 515 ss. e in Giur. it., 1975, I, c. 1416 ss. che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 c.p. nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.

[17] Cfr. Corte cost., 10 febbraio 1997, n. 35, in Foro it., 1997, I, c. 653 ss.

[18] Così C.M. Bianca, sub art. 1, in C.M. Bianca e F.D. Busnelli (a cura di), Commentario alla Legge 22 maggio 1978, n. 194. Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, in Nuove leggi civ. comm., 1978, II, p. 1593.

[19] Per l’analisi di queste situazioni giuridiche sia consentito rinviare ad una nostra precedente e più approfondita riflessione: A. Martini, Il diritto a nascere, La Sapienza, Roma, 2008, pp. 68 ss. e 127 ss.

[20] Allo scopo di evitare in ogni caso divergenze interpretative, alla presidenza del Senato è stato comunicato il 13 ottobre 2022 il disegno di legge n. 165 (v. il testo in https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/420885.pdfconsultato il 30.3.2023) per modificare l’art. 1, comma 1, c.c. come segue: «Ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento».

[21] Per un esame ed una sintesi della condizione giuridica del concepito cfr., nella più recente dottrina, C. Casini, La capacità giuridica del concepito, in Dir. fam e pers., 2019, 1, 2, p. 282 ss.; A. Spadaro, Il “concepito”: questo sconosciuto…, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, Special Issue 2/2019, p. 419 ss.

[22] Cfr. F. D. Busnelli, Verso una giurisprudenza che si fa dottrina. Considerazioni in margine al revirement della Cassazione sul danno da c.d. «nascita malformata», in Riv. dir. civ., 2013, 6, p. 1520 secondo cui l’autodeterminazione è un principio desumibile dagli artt. 2, 13 e 32 Cost., ed è certamente, come ha stabilito la sentenza della Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 438, un «diritto fondamentale della persona» da interpretarsi «in sintesi con il diritto fondamentale alla salute» e che è chiaramente autodeterminazione terapeutica.

[23] Cfr. sul punto D. Farace, Interruzione volontaria della gravidanza e situazioni giuridiche soggettive, in Riv. dir. civ., 2018, 3, p. 810 ss. secondo cui, in particolare, «[L]a richiesta della madre di procedere a I.V.G., unitamente agli altri presupposti, parrebbe allora configurarsi come un fatto giuridico impeditivo, ossia un fatto reso giuridicamente rilevante per impedire ad un altro fatto di essere efficace» (p. 822).

[24] L’espressione «diritto all’aborto» ricorre più volte in Cass., 20 ottobre 2012, n. 16754, in Danno e resp., 2013, p. 1 ss. ed è ritenuta una «indebita semplificazione – o […] lapsus-» da F.D. Busnelli, Verso una giurisprudenza che si fa dottrina. Considerazioni in margine al revirement della Cassazione sul danno da c.d. «nascita malformata», cit., p. 1520.

[25] Cfr. Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, 597 U.S. ___ (2022) che ha confermato la legittimità della legge del Mississippi (Gestational Age Act) del 19 marzo 2018 che vieta l’aborto dopo la quindicesima settimana di gestazione.

[26] Per un’analisi dei precedenti ed il contesto di riferimento cfr. A. Rizzieri, L’aborto nella giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, in Nuova giur. civ. comm., 2001, 3, II, p. 228 ss.

[27] Cfr. Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973) la quale ha stabilito che nel primo trimestre della sua gestazione la donna ha il diritto di decidere con il proprio medico di interrompere la gravidanza e questa decisione non può subire interferenze da parte dello Stato; dopo il primo trimestre lo Stato può invece disciplinare l’aborto prevedendo limitazioni finalizzate soltanto alla tutela della salute della donna, ma non può proibirlo; infine, quando il feto ha raggiunto la c.d. viabilità (viability) e, cioè, negli ultimi tre mesi di gravidanza, l’aborto può essere vietato perché occorre proteggere la potenziale vita umana salvo che sia necessario salvaguardare la vita o la salute della madre.

[28] Cfr. Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v. Casey, 505 U.S. 833 (1992) che, fra l’altro, respinge la distinzione fra i tre trimestri della gravidanza previsti nella decisione Roe v. Wade (1973). Per la traduzione italiana della sentenza v. Foro it., 1992, IV, c. 527 ss.

[29] Sul punto cfr. C. cost., ord., 14 aprile 1988, n. 462, in Giur. cost., 1988, I, p. 2096 ss., che ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

[30] In tal senso, fra le ultime, cfr. Cass., 5 febbraio 2018, n. 2675, in Corr. giur., 2018, 7, p. 921 ss. secondo cui anche il padre deve considerarsi tra i soggetti “protetti” avente diritto al risarcimento dei danni cagionati, immediati e diretti, fra i quali quelli patrimoniali derivanti dal dovere di mantenimento, come genitore, della figlia “indesiderata”; cfr. anche Cass., 4 gennaio 2010, n. 13, in Giur. it., 2011, 1, p. 76 ss.

[31] Cfr., fra le ultime, Cass., 15 gennaio 2021, n. 653 cit.; Cass., 6 luglio 2020, n. 13881, in Studium juris, 2021, 3, p. 383 ss. che parla di «diritto al risarcimento dal danno da privazione della facoltà di esercitare una consapevole scelta se effettuare o no un aborto terapeutico» piuttosto che di “danno da nascita indesiderata”, ritenuti termini «alquanto brutali e che non danno conto con sufficiente rispetto della sofferenza che c’è dietro sia alla scelta di procedere consapevolmente nella gravidanza che darà luogo alla nascita di un bambino menomato, sia alla scelta di interromperla». La citata sentenza è in linea con Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767, in Giur. it., 2016, 3, p. 543 ss. la quale, inoltre, esclude la legittimazione del nato con disabilità ad agire verso il medico per il danno da “vita ingiusta” (c.d. wrongful life), poiché l’ordinamento non riconosce al nascituro il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell’illecito omissivo del medico. Cfr. già Cass., 29 luglio 2004, n. 14488, cit. secondo cui non è responsabile verso il nascituro il medico che abbia soltanto omesso di informare la gestante delle malformazioni o patologie. Per un quadro generale della recente giurisprudenza sul tema cfr. A. Arceri, I plurimi aspetti del danno da nascita indesiderata nella recente giurisprudenza, in Fam. e dir., 2022, 3, p. 291 ss.

[32] Così Cass., 6 luglio 2020, n. 13881, cit.; Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767, cit.

[33] Cfr. Trib. Padova, 19 novembre 1985, cit.

[34] Cfr. Ministero della Salute, Linee di indirizzo sull’IVG con metodo farmacologico, 4.8.2020, in https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_3039_allegato.pdf (consultato il 31.3.2023).

[35] In senso critico cfr. L. Eusebi, La tutela penale della vita prenatale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 1078 secondo cui la previsione della gratuità delle procedure abortive, estesa anche alle ipotesi di reiterati ricorsi alla I.V.G., potrebbe essere un incentivo all’aborto.

[36] Cfr. Ministero della Salute, Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della Legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78) – Dati definitivi 2020, trasmessa al Parlamento in data 8.6.2022 e pubblicata il 13.6.2022, in https://www.salute.gov.it/portale/donna/dettaglioPubblicazioniDonna.jsp?lingua=italiano&id=3236 (consultato il 31.3.2023).

 

____________________________

Note legali

© Copyright 2023 – Tutti i diritti riservati – RIPRODUZIONE RISERVATA a norma dell’art. 65, comma 1, della legge 22/04/1941, n. 633 inerente alla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio. È possibile scaricare e stampare l’articolo per uso personale ma non commerciale, ma solo a condizione che il diritto d’autore e il copyright originali siano rispettati. Tuttavia l’uso, il riassunto, la citazione o la riproduzione di parti del presente articolo sono consentiti esclusivamente secondo le modalità e nei limiti previsti dall’art. 70, commi 1 e 3, della succitata L. 22/04/1941, n. 633 ma solo a condizione che il titolo originale dell’opera, il nome dell’autore originale e l’indicazione della denominazione di questa rivista e del relativo sito internet su cui è apparsa per prima la presente pubblicazione siano espressamente citati da parte chi ne fa uso, in base alle procedure contemplate dalla consueta pratica accademica e scientifica accettata e soprattutto nel rispetto del copyright originale, della Convenzione di Berna e delle altre leggi internazionali vigenti in materia di tutela del diritto d’autore. È espressamente vietato l’uso, la distribuzione o la riproduzione che non siano conformi a questi termini, tutte le violazioni del presente diritto d’autore e del copyright saranno severamente perseguite a norma di legge.

 

Copyright © 2023. This article is protected by copyright. For personal use only. All rights reserved. No other uses without permission.

 

Dichiarazione di conformità all’originale

L’autore ha letto e accettato la presente versione pubblicata del suo manoscritto che dichiara conforme all’originale da lui consegnato al Comitato di redazione di questa Rivista.

 

Dichiarazione sul conflitto di interessi

L’autore dichiara che la presente ricerca, la raccolta, l’elaborazione e lo studio dei dati correlati alla redazione di questo articolo sono stati condotti in assenza di relazioni commerciali o finanziarie che potrebbero essere interpretate come un potenziale conflitto di interessi.

 

Finanziamento

Questo articolo di ricerca non ha ricevuto finanziamenti esterni.

 

Clausola di esclusione della responsabilità

Nota Bene: il presente articolo è il frutto di una ricerca e di una redazione originale e inedita del contenuto da parte di ciascun autore mediante un accurato procedimento di raccolta, di analisi e di distribuzione dei dati e delle informazioni pertinenti delle fonti riportate nelle note, nella bibliografia e nella sitografia reperiti su varie pubblicazioni, su siti internet e in studi pubblicati su svariate riviste scientifiche e specialistiche settoriali nonché su volumi editi in italiano e/o in inglese e in altre lingue straniere. Sebbene molte delle predette fonti bibliografiche utilizzino delle procedure di revisione tra pari, tuttavia gli autori che hanno redatto gli articoli pubblicati sul sito della Rivista di Medicina e Scienze Umane non hanno modo di accertare né di garantire l’effettiva veridicità dei dati e delle informazioni riportate da tali fonti bibliografiche.

Giova ribadire che gli indirizzi dottrinari e giurisprudenziali nonché le informazioni scientifiche sono soggetti a continue variazioni causate da modifiche alle normative di riferimento oppure da nuove scoperte scientifiche incrementate dalle incessanti ricerche e sperimentazioni cliniche, ma anche dalle normali divergenze di opinioni fra i differenti orientamenti della dottrina giuridica, della letteratura scientifica e persino tra le autorità preposte, nonché dagli aspetti unici dovuti alla variabilità individuale e alla possibilità di errori umani. Pertanto, tutti questi molteplici fattori ed elementi differenti si ripercuotono inevitabilmente quando vengono redatti articoli di ricerca così estesi, cosicché è possibile che altre fonti della letteratura medica, giuridica e scientifica possano prospettare ipotesi contrastanti o divergenti dalle informazioni riportate sul sito di questa Rivista.

Queste informazioni non rappresentano in alcun modo un parere specifico o una presa di posizione della Rivista su uno determinato argomento, ma esprimono soltanto opinioni e considerazioni personali degli autori, sebbene si tratti di professionisti altamente qualificati.

Pertanto, con la presente dichiarazione il Direttore scientifico, il Direttore responsabile, il Comitato scientifico, la Redazione e l’Editore declinano ogni responsabilità per le opinioni e le considerazioni personali e professionali espresse dagli autori negli articoli pubblicati. Infatti, i risultati e le conclusioni di questi articoli e degli studi scientifici in essi eventualmente contenuti e pubblicati sono quelli a cui sono pervenuti gli autori medesimi, perciò non rappresentano esplicitamente o implicitamente la posizione ufficiale su specifici argomenti della Rivista di Medicina e Scienze Umane, né tantomeno del Direttore scientifico, del Direttore responsabile, del Comitato scientifico, della Redazione e dell’Editore, che a norma del regolamento della Rivista medesima sono tenuti al mantenimento di una posizione di terzietà e d’imparzialità rispetto a tutti gli autori.