The assessment of parenting capacity for the purpose of adoption in a legal and pedagogical perspective

 

di Barbara Palleschi [*], Ph.D. Student [*]

 

Accettato: 30 novembre 2022 – Pubblicato: 9 febbraio 2023. 

 

Il presente contributo prima di essere pubblicato è stato sottoposto a procedura di referaggio (peer review) in base al regolamento editoriale della Rivista.

SOMMARIO:

Abstract

Bibliografia

Sitografia

  

Abstract

 

Two sides of the same coin: the “Right to BE CHILD” and the “Right to BE PARENT” analyzed through both a legal and a pedagogical perspective.

Above all by making use of a pedagogical approach, in the following paper a concrete case of adoption and subsequent reunification with the biological mother will be examined through direct listening to the son (N.A.), now thirty years old, through a cognitive interview, i.e. a pedagogical investigation and evaluation tool that prefers free storytelling, rather than providing a series of items (questions) such as to influence the answer and the recall of memories from the Long Term Memory (LTM).

The analysis of this case was divided into three phases, placing the emphasis, however, predominantly on the assessment of parenting capacity and how this influenced the declaration of adoptability of the minor temporarily placed in a family home. It will be precisely this person, first at the age of eighteen and then at the age of twenty-five, who will present the appropriate application to the Juvenile Court hoping to obtain information on his origins and to pursue the ultimate goal which he had set himself for some time: better understand your identity.

 

Key words:

 

Capacità genitoriale; Diritto all’essere figlio; Diritto all’essere genitore; adozione; concetto di “sé”.

Parenting ability; Right to be a child; Right to be a parent; adoption; concept of “self”.

 

 

  • FASE 1: il concetto di “sé”

 

«Parto dal presupposto che i miei genitori non mi hanno mai nascosto nulla. Se io di preciso devo dirti quando è stata la prima volta che mi sia stato detto che io ero figlio adottivo non te lo so dire perché è come se io sia nato proprio così. I miei genitori non mi hanno mai nascosto le mie origini. Praticamente questa donna mi aveva fatto nascere, non poteva prendersi cura di me e quindi da piccolissimo sono stato portato in una casa famiglia e, di lì a breve poi è iniziato tutto l’iter burocratico e sono stato preso in adozione. […] Poi, da ragazzino quel qualcosa di diverso non ce l’hai tu, non lo senti tu ma te lo fanno sentire gli altri quindi, in diverse occasioni o per curiosità o per semplice prendere in giro: “Ah figlio adottato, adottato, adottato”. Questa cosa da ragazzino mi ha fatto star male parecchio, poi crescendo dici non è che mi manca qualcosa rispetto agli altri, anzi, io questa cosa l’ho metabolizzata però i miei genitori comunque non avevano delle risposte a quelle che potevano essere le mie domande perché c’è il segreto istruttorio per tutelare ambo le parti, sia il figlio adottivo che la madre naturale. Io questa cosa di risalire alle mie origini ce l’ho sempre avuta, un po’ per curiosità. […], un po’ per capire meglio che persona sei, che adulto stai diventando, ma se a te manca sempre qualcosa prima è un vuoto che non riesci a colmare, quindi ecco, per quanto i miei genitori non mi abbiano mai fatto mancare nulla, né di attenzioni, amore, ecc., però hai sempre quella cosa di dire “da dove arrivo? Perché è andata così? Che è successo?”. Questa cosa è iniziata a 18 anni. Appena compiuti sono andato a fare richiesta tramite una delle assistenti sociali che seguì il mio caso all’epoca che mi mise in contatto con il giudice che seguì il mio caso, ormai prossimo alla pensione, il quale mi disse che bisognava aspettare i 25 anni perché prima dei 25 anni nessun giudice di dà l’ok per sapere questa cosa”. Un po’ mi era caduto il mondo addosso perché avevo aspettato questi 18 anni con tanta ansia, cioè i ragazzi a 18 anni aspettano l’indipendenza, la macchina, io aspettavo quello, e quindi è stato pesante […]. Nel frattempo mi ero andato a documentare che in Italia c’è ancora la “Legge dei cent’anni”, quindi nel caso in cui la mia mamma naturale mi avesse dato via perché non voleva tenermi o per altri motivi c’è questa legge che praticamente per cento anni il figlio non può chiedere l’accesso agli atti, questo per tutela appunto della donna in questo caso, quindi comunque mi si era messo anche questo altro tarlo. Nel frattempo avevo iniziato conoscendo il mio cognome materno a cercare anche su Facebook, era iniziata così la cosa. Compio 25 anni, nel frattempo la mia vita era andata avanti sotto tutti gli aspetti, lavorativa, familiare ecc. ecc., compio 25 anni e mi manca il coraggio, mi manca il coraggio perché mi sembrava di tradire un po’ i miei genitori adottivi, sembrava come una mancanza di gratitudine nei loro confronti e verso tutto quello che avevano fatto per me no, quindi è passato un altro anno. Un pomeriggio mia madre mi dice: “Cosa hai deciso di fare con questa storia dell’adozione, adesso 25 anni gli hai compiuti, non vuoi fare più niente?”, per me quella è stata una grossa liberazione perché, insomma, era come quel consenso che aspettavo. Quindi da lì sono andato al tribunale e ho presentato tutta la documentazione».

 

In una prima analisi della testimonianza su riportata, l’aspetto che più emerge in superficie è quello del concetto di “sé” (self-concept), ossia, l’insieme delle conoscenze che ciascun individuo ha della propria vita e delle proprie esperienze[1] attraverso cui modella le proprie azioni nel tempo.

Il bambino ha quindi modellato il proprio sé sulla base delle informazioni che gli sono state fornite dai genitori adottivi come risposta alle sue domande, poste loro sia per curiosità che per comprendere meglio alcune parole pronunciate dai compagni di scuola che, innocentemente o consapevolmente, hanno generato comunque in lui la percezione di non essere accettato all’interno della società in cui si trovava a vivere ed a crescere. Purtroppo, nonostante l’evoluzione di questa, talvolta sia all’interno delle mura scolastiche, sia tra le famiglie del gruppo-classe che, ancor peggio, in un piccolo paese si è rimasti a tutt’oggi ancorati a insoliti pregiudizi che etichettano come “figlio” soltanto il bambino o la bambina che possiede i tratti somatici somiglianti a quelli della propria madre, del proprio padre o di entrambi; senza sapere però che, dinanzi alla legge ciascun essere umano che sia figlio naturale, figlio legittimo oppure figlio adottivo godono tutti degli stessi diritti. A tal riguardo, su questo punto, la “Convenzione dei Diritti dell’Infanzia” dedica degli importanti riferimenti all’interno di uno dei quattro principi fondamentali, ossia “il Diritto alla Parità di Trattamento”.

 

  • FASE 2: le certezze

 

«Poi io quando sono andato lì, al colloquio, la psicologa mi disse: “Tu cosa ti aspetti?”. Io le risposi: “Io non mi aspetto niente, e del peggio mi aspetto ancora il peggio”, perché ho messo in considerazione che questa donna potesse essere una mezza sbandata, una prostituta, un’alcolizzata ecc., le avevo pensate tutte. Ormai sono un uomo, è peggio che non sapere. Mi sento di sopportare tutto. Lì mi era stato detto che lei aveva dei disturbi e quindi non era una persona in grado di potersi prendere cura di me. È una persona con disabilità cognitive e questo spiegava anche una serie di elettroencefalogrammi che a me avevano fatto da piccolissimo, sicuramente era per vedere se anche io avevo qualche disturbo cognitivo. A luglio del 2020 sono andato al tribunale a …. e ci siamo incontrati lì la prima volta. C’era lei, la sua tutrice, il suo avvocato e altri due assistenti sociali che l’hanno seguita. Questa è stata una gioia immensa, un’enorme liberazione, anche e SOPRATTUTTO IL SEMPLICE RIVEDERE DELLE SOMIGLIANZE NEL VOLTO DI QUELLA CHE È MIA MADRE. Ho provato una sensazione forte, perché alla fine dici: “Non è perché eri un vuoto a perdere o perché eri un peso, è perché oggettivamente non poteva prendersi cura di me. Mi hanno raccontato che lei poi è stata in una clinica dove accoglievano le ragazze madri, le ragazze con delle difficoltà proprio per vedere se fossero in grado di prendersi cura di me, ma effettivamente lei non lo era assolutamente perché comunque aveva delle difficoltà per se stessa, figuriamoci poi con un bambino. Poi lì, piano piano, hanno provato a togliermi, è stata malissimo, e praticamente tolto a me gli hanno dato un pupazzo, che l’ha tenuto, ce l’ha ancora a casa. Dopo questo, lei da questa struttura scappò e la ritrovarono a Roma perché mi cercava, perché le avevano detto che mi portavano a Roma, e lei è stata tutta la vita a dire che aveva questo figlio e che stava a Roma. Quando poi sono arrivato là si è girata verso l’avvocato e gli ha detto: “Eh, hai visto, te l’ho detto che veniva”. […] Un buco ancora c’è perché la sua storia è una storia molto controversa. Lei ha altre due sorelle, non si è capito se tutte e tre dello stesso padre o se di padri diversi ma comunque ognuna ha delle difficoltà anche dal punto di vista fisico. Da quello che più o meno si è capito, è che praticamente quella che sarebbe mia nonna era una ragazza madre, anche lei, con tre figlie, avute da diversi compagni, non poteva prendersi cura di loro e quindi le ha mandate in un collegio di suore. Per quello che invece riguarda mio padre non si sa nulla perché praticamente anche là è una storia un po’ controversa però prima di fare nomi e cognomi non me la sento di rischiare, e quindi alla fine diciamo che sto continuando a cercare di capire qualcosa in maniera molto delicata e pacata per capire. Praticamente lei (la mamma naturale di N. A.) era in questa clinica dove faceva dei piccoli lavoretti e si erano conosciuti là con questa persona e si frequentavano, poi sono andati a vivere insieme e quando questo si è accorto che lei era incinta l’ha riportata lì, e il fatto che per sfortuna sua e per fortuna mia erano gia passati 3 mesi e quindi non potevano più abortire».

 

In questa seconda fase l’attenzione viene posta invece sulle due figure cardini dell’intera vicenda: il figlio “adottivo” e la sua madre biologica.

 

N., anche se adesso è cresciuto e ha compreso tutto lo svolgersi dell’intera vicenda, è un uomo rimasto ancora attraccato al concetto di somiglianza “somatica”; infatti, la prima cosa che fà appena entra nell’aula di tribunale e trova davanti a sé quella che geneticamente è sua madre, è di andare a riconoscere la propria somiglianza nei tratti somatici del viso di costei come se fosse una conferma di aver trovato, finalmente, quello che cercava da tanto tempo.

 

Analizzando invece la figura materna, ci troviamo di fronte ad un caso molto delicato. Questa donna pur volendo, ma a causa delle difficoltà cognitive che aveva e che ha tuttora, effettivamente non era in grado di prendersi cura del proprio bambino e di crescerlo in modo sano e in condizioni di sicurezza[2] nonostante siano stati strutturati appositamente per lei dei programmi educativi e la collocazione presso un ambiente idoneo. Successivamente a causa dell’esito negativo di tali programmi, dopo un’apposita segnalazione al servizio sociale di pertinenza e le varie indagini di rito disposte dal Giudice del Tribunale per i Minorenni decade per essa la responsabilità genitoriale mentre, per il bambino viene avviato e in seguito dichiarato lo stato di adottabilità con sentenza in Camera di Consiglio. Da tale sentenza, non soggetta a nè revoca e né a revocazione, non possono essere divulgate più in alcun modo notizie relative al genitore biologico, tranne che per comprovati motivi e su autorizzazione dello stesso Tribunale per i Minorenni oppure, come in questo caso, tali informazioni possono essere fornite soltanto all’adottato dopo il raggiungimento dei 25 anni di età, sempre previa autorizzazione del Giudice del Tribunale per i Minorenni al quale questo deve rivolgere un’apposita istanza.

 

  • FASE 3: fine

 

«Io e …… (nome della mamma naturale) siamo rimasti in buoni rapporti, abbiamo iniziato a frequentarci, il paese dove si trova non è proprio dietro l’angolo quindi in base a come posso vado a trovarla, passiamo magari una mezza giornata o una giornata insieme. Lei è venuta a trovarmi, accompagnata dalla sua tutrice, e a fine giornata mi ha detto: “È bello qua, posso venire?”, e io gli ho detto: “Ma come fai a venire qua? Se noi non ci siamo tu hai bisogno delle tue cose”. Lei ha bisogno dei suoi spazi, si stanca facilmente, non ce la fa, ha le sue abitudini, deve essere seguita quotidianamente. Lì, nel paese dove abita, ha una sua casa indipendente, sono case popolari, però comunque vengono a farle le pulizie, ci sono i servizi sociali che la aiutano, la portano a fare la spesa, c’è A. che è una mano santa, la sua tutrice, è come una vera è propria famiglia per lei, se ne prende cura più di una figlia e quindi, è impensabile strapparla da quella che è la sua realtà. Poi il giorno del mio matrimonio l’ho voluta lì accanto a me».

 

Il bambino è diventato un uomo. Adesso l’anello mancante per chiudere la catena della vita di A. N. è stato trovato e rinsaldato. Da che era un bambino con un concetto di sé molto controverso, ora è un adulto con una buona posizione lavorativa (ha realizzato il sogno che aveva sin da piccolo ossia di diventare un Vigile del Fuoco), stà formando una propria famiglia ma, soprattutto, ha trovato quel che cercava ed è pronto per affrontare una “nuova” vita senza aver lasciato in sospeso questioni con la “precedente”.

 

La mamma ha finalmente potuto rincontrare il proprio figlio dopo ben trent’anni trascorsi a vivere in preda ad ansia, frustrazione e pensieri negativi fissi tali da compromettere il proprio stato di salute e indurla a comportamenti non del tutto idonei che potevano gravare su di esso. Le giornate erano scandite da un’immaginazione continua del suo “bambino” e, soprattutto al caregiver di riferimento, raccontava di avere questo figlio tolto da lei (e non per causa sua) piccolissimo, che stava crescendo, chissà in quale parte del mondo fosse, chissà come e cosa sarà diventato ma soprattutto, chissà cosa penserà di sua madre, magari che lo aveva abbandonato, anche se nella realtà dei fatti non era proprio così. Lei voleva e doveva a tutti i costi spiegargli come realmente si era svolta l’intera vicenda.

  

Bibliografia

 

  • Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child – CRC), Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 1989.
  • Giaconi C., Fiorillo A. (a cura di), Percorsi di pedagogia giuridica, Bergamo, Edizioni Junior, 2010.
  • James W., Principles of Psychology, New York, Henry Holt & Co, 1890.

 

 

Sitografia

 

 

Barbara Palleschi [*]:

Pedagogist; Expert in Criminology and Forensic Sciences; Lecturer at the Niccolò Cusano University of Rome; Ph.D. Student in Law and Cognitive Neuroscience; Deputy Chief Editor of the Journal of Medicine and Human Sciences;

Pedagogista, Esperta in Criminologia e Scienze Forensi, Docente nell’Università degli Studi Niccolò Cusano – Telematica Roma; Dottoranda di ricerca in Law and Cognitive Neuroscience; Vice Capo Redattore della Rivista di Medicina e Scienze Umane;

 

Contributi degli Autori

Sono formalmente attribuiti integralmente alla Prof.ssa Barbara Palleschi l’Abstract e i paragrafi FASE 1: il concetto di “sé”, FASE 2: le certezze, FASE 3: fine, nonché quello inerente alla Sitografia da Lei personalmente ed esclusivamente redatti in piena autonomia.

Inoltre, l’apporto individuale degli Autori per quanto concerne la ripartizione dei compiti e delle altre attività inerenti alla presente pubblicazione è come di seguito suddiviso:

Barbara Palleschi: progettazione dell’articolo di cui è prima Autrice, collaborazione nella ricerca multidisciplinare di gruppo, ricerca e interpretazione dei dati e scrittura dei propri paragrafi; preparazione e redazione originale della bozza.

 

[1] James W., Principles of Psychology, New York, Henry Holt & Co, 1890.

[2] Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child – CRC), Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 1989: https://www.unicef.it/, consultato il 29/11/2022.

Note legali

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