Write life. The narrative of self, of others, of the world.

 

di Guido Bosticco [*]

 

Accettato: 26 novembre 2022 – Pubblicato: 16 dicembre 2022

Il presente contributo prima di essere pubblicato è stato sottoposto a procedura di referaggio (peer review) in base al regolamento editoriale della Rivista.

 

SOMMARIO

 

Abstract

  1. La narrazione di sé, degli altri, del mondo.

Bibliografia

Note legali

 

 

Abstract

This short paper addresses briefly the problem of how life narratives (biography and autobiography) build a subject other than the self. This happens because writing necessarily constitutes a narrative and not an ontological structure.

In addition, the article mentions how the autobiographical form featured on social networks can change, shape and alter individual identities, because of the binding elements that the platforms themselves introduce into the narrative allowed within them.

 

 1. La narrazione di sé, degli altri, del mondo.

«La scrittura è una forma organizzata di pensiero». Parola di Stephen King, il quale – con l’efficacia comunicativa che lo contraddistingue – giunge al cuore della caratteristica ineliminabile della scrittura. Essa nasce per ricostruire, in forma pienamente comprensibile, ordinata, razionalizzante, ciò che comprensibile, ordinato e razionale non è, e cioè la realtà.

Ogni nostra esperienza sensoriale, che sta all’origine di ogni nostra relazione con il mondo reale, è di per sé un fenomeno al quale tentiamo di attribuire un senso, all’interno di un orizzonte di conoscenze e una struttura di categorie che già abbiamo. Così formiamo la nostra cultura, il nostro sapere, ciò che conosciamo. Si dice “è una persona di esperienza”, ma si dovrebbe dire “è una persona di razionalizzazione di esperienza”, poiché l’esperienza, di per sé è un fatto particolare, contingente, irripetibile e incomunicabile. Quindi, praticamente, non ci serve quasi a nulla, se non per essere razionalizzato, trasformato in un concetto e posizionato all’interno del nostro armadio delle conoscenze.

La scrittura è uno strumento che, fin dal primo nostro approccio con essa, ci obbliga ad operare almeno questo passaggio. E in effetti, usiamo dire che fra noi, chiacchierando, ci scambiamo le esperienze, raccontiamo le nostre esperienze. Va da sé che l’esperienza in sé (che cosa io ho provato quel giorno a quell’ora quando ho toccato i fili scoperti di una presa elettrica) è qualcosa che nessuno mai al mondo potrà provare, perché io non potrò trasmettere quella informazione sensoriale in alcun modo. Potrò però elaborare una strategia retorica che permetta, agganciandosi a elementi che ritengo comuni al mio interlocutore, di rappresentare le condizioni per cui si prova quella sensazione, toccando i fili scoperti. In altre parole, posso tentare di attivare il ricordo di un’esperienza simile avuta dal mio interlocutore o, più probabilmente, richiamare concetti e simboli che, nel suo armadio di conoscenze, in qualche modo si colleghino a quella sensazione. È infatti molto frequente che qualcuno ci racconti un’esperienza vissuta che noi non abbiamo mai similmente vissuto, dunque in quei casi non possiamo attivare direttamente alcuna memoria, semmai possiamo riunire diverse memorie simili o assimilabili e diversi concetti e simboli e ricostruire così una realtà, in modo razionalmente concepibile per noi. Altrimenti, semplicemente, diciamo di non capire che cosa l’altro ci sita dicendo.

La domanda di fondo è quindi come sia possibile trasferire il mondo in un foglio scritto, o in una voce parlante, è uguale. E, nel caso dell’argomento di questo saggio, come sia possibile trasformare una vita in un testo, cioè in una (auto)biografia.

Quando scriviamo operiamo una serie di passaggi che di fatto ci allontanano assai da una diretta connessione con il mondo. Se assumiamo, con un certo grado di semplificazione, che il mondo è costituito da cose (luoghi, elementi fisici e appartenenti al paesaggio, oggetti etc.); persone e fatti (che essenzialmente sono una interazione fra persone e fra persone e cose), allora il problema è capire come questi elementi possano trovare la loro forma in scrittura.

Non è difficile: i luoghi e le cose si trasformano in ambientazioni, le persone in personaggi, i fatti in trame. E, ancora più materialmente: le ambientazioni diventano descrizioni, i personaggi lo stesso, ma ad essi pertengono anche i dialoghi, le trame sono fatte di punti di svoltacolpi di scena, etc.

Aggiungiamo che la scrittura sfrutta le leve della razionalità e dell’emotività, attraverso la sintassi, la punteggiatura, le figure retoriche e tutte le tecniche narrative che ci vengono in mente. E infine aggiungiamo che ogni testo, meglio, ogni autore di un testo, soggiace ai limiti dettati da tempo, spazio e destinatario: infatti, in base a questi tre elementi, l’autore è costretto a modificare il proprio testo, nello stile, nella struttura, nella lunghezza e così via, in funzione della sua comprensibilità e della sua efficacia.

Insomma, sono le basi della narratologia. Ogni testo, quindi ogni (auto)biografia, cioè ogni narrazione della vita, si basa su questo schema. E ciò con cui il lettore (o l’uditorio) ha a che fare è solo l’ultimo gruppo di elementi – e cioè descrizionidialoghipunti di svolta – che sono la risultante di un lungo percorso rispetto al dato originario dell’esperienza dei fili scoperti o, addirittura, di una vita intera vissuta.

A partire da quell’ultimo gruppo di elementi il lettore opera le sue interpretazioni e le sue decodifiche, in base a esso comprende, si emoziona, reagisce. Ma è chiaro a tutti quanto quel gruppo di elementi (descrizionidialoghipunti di svolta) sia lontanissimo dalla realtà così come si è verificata. Almeno due passaggi, lo abbiamo visto, si frappongono fra di essi.

Quindi, ci chiediamo che cosa accada a una vita quando viene trasformata in un testo.

Anzitutto, la narrazione permette di dare un senso alla vita. La scrittura, che è lineare, obbliga a organizzare logicamente i contenuti, a strutturare una gerarchia di informazioni secondo un ordine razionale, oltre che, naturalmente, secondo un tono emotivo, attraverso gli strumenti della retorica e della lingua in generale. Di fatto, però, la scrittura è essenzialmente una messa in ordine. E se è scrittura di una vita, permette di dare coerenza a ciò che coerenza non ha e cioè la vita medesima.

I fatti non accadono sempre (anzi forse quasi mai) con consequenzialità logica, ma la scrittura necessariamente deve assegnare questa consequenzialità per poter esistere ed essere comprensibile, poiché la sua natura è lineare e consequenziale. Dunque, l’(auto)biografia fa esattamente questo: assegna senso ad accadimenti che di per sé non ne hanno.

Facciamo un esempio di autobiografia, che potrebbe essere raccontato da qualcuno che conosciamo.

 

Quella sera, mentre stavo tornando a casa, ho forato la gomma della bicicletta, forse un chiodo. Il telefono non prendeva. Per fortuna, dopo pochi minuti, un uomo con un furgone si è fermato e mi ha dato un passaggio fino in città, caricando la bici nel cassone. Gli ho offerto una birra, mi sembrava il minimo, prima di salutarlo. Nel bar abbiamo incontrato un gruppo di suoi amici e amiche. Ci siamo uniti per un brindisi. Ebbene una di quelle persone, 10 anni dopo, è diventata mia moglie. E oggi viviamo felici e contenti con tre figli. Quella foratura è stata l’evento che mi ha cambiato la vita. Grazie a quella foratura ho una famiglia bellissima. Se non avessi forato, forse oggi sarei un insopportabile zitello pedante.

 

Tutto torna, sembra lineare e forse lo è. Davvero quella foratura è stata miracolosa. Ma se ci pensiamo bene, non c’è nessuna reale connessione tra il chiodo sulla strada e la felicità del nostro amico, o la sua condizione esistenziale, o men che meno il suo stato civile. Sono due eventi, o due fatti, del tutto scollegati. Al massimo sono collegati da spazio e tempo. Ma non da causa ed effetto, in senso rigoroso. La foratura di una bicicletta non implica il matrimonio, questo è chiaro a tutti. Il modus ponens non è applicabile in questa circostanza. Ma la scrittura deve assegnare senso e significato a quell’evento. Necessariamente. E così fa la lettura interpretante dei fatti da parte del lettore, giacché la comunicazione è un’attività cooperativa.

Anche la scrittura più complessa e l’architettura narrativa più ardita, per quanto possano giocare su piani differenti e paralleli, sulla manipolazione del tempo, attraverso flashback e flashforward, in ogni caso non possono esimersi dall’essere comprensibili secondo le categorie concettuali logiche con cui ognuno di noi struttura le proprie informazioni. Spazio, tempo, anteriorità e posteriorità, possibilità e impossibilità, relazioni di grandezza, consequenzialità, causa ed effetto e così via. Là dove la scrittura non organizzi esplicitamente queste categorie, interviene il lettore, ristrutturando gli accadimenti narrati secondo una logica a lui comprensibile. Per questo la scrittura e la lettura sono azioni complementari.

Tornando alla biografia o, per comodità, all’autobiografia: in sintesi, attraverso la scrittura è possibile trasformare me stesso in un personaggio comunicabile agli altri. Quel personaggio non sono io, però. È appunto una trasformazione letteraria, razionalizzante, categorizzata di una elaborazione concettuale che prende spunto da una vita. Attraverso la scrittura, costruiamo qualcuno che ci assomiglia e che agisce nel contesto narrativo. Nel raccontare creiamo metafore, similitudini, manipoliamo il tempo e lo spazio della fabula e lo ridisegniamo nell’intreccio, applichiamo uno stile e utilizziamo una retorica: tutto ciò contribuisce a creare il nostro io narrato o narrativo. Paul Ricoeur lo definiva il sé narrativo, che rappresenta il Sé come un altro (titolo di una raccolta di studi di Ricoeur): noi non creiamo un idem, ma un ipse. Quel  che emerge dal racconto non è l’io della mia esistenza e l’ipse è un’entità autonoma che agisce nel campo narrativo, che si muove sul palco della rappresentazione che la scrittura ne fa. È inevitabile, inoltre, che quell’ipse debba soggiacere alle regole narrative dell’intreccio, della creazione di connessioni logiche, temporali, sentimentali, causali che la scrittura impone. È del tutto evidente che ciò non accade invece all’io che vive e vegeta su questa terra come essere umano e a cui mi rivolgo nella mia interiorità.

Sembra quindi che la biografia (e ancor di più l’autobiografia) sia un’attività di finzione, completamente staccata dai vincoli terreni e che possa, in qualche modo, percorrere strade proprie. In realtà essa è parte integrante dello sviluppo di ogni essere umano, fin dai primi anni di vita: raccontare di sé e degli altri contribuisce a creare ciò che noi e gli altri siamo anche sul piano della realtà. Il racconto può mitizzare, riorganizzare, rimettere in ordine, escludere o accogliere il soggetto narrato. In sostanza, lo costruisce socialmente. Anche la psicoterapia deve tenere conto del nesso tra vita e racconto, poiché il modo di raccontare di sé dice qualcosa del paziente. Proprio nel momento in cui esercita ed esprime la propria forza cognitiva, la psicoterapia è vincolata a questo nesso e all’interpretazione del testo narrato dal paziente.

Attraverso il racconto, inoltre, costruiamo, rafforziamo, indeboliamo o distruggiamo legami sociali e affettivi, ma insieme generiamo uno spazio comune, una condivisione di significati ed eventualmente di valori e concetti che intendiamo come fondativi per una certa comunità. Cioè costruiamo cultura e con essa reti di relazioni. La mitologia, i poemi, il teatro, l’opera lirica, l’epopea dei film western… Tutto il mondo dello storytelling è una forma di narrazione della vita che porta all’interno della comunità di riferimento la costruzione e la condivisione di valori e concetti.

Ecco perché tutto ciò è interessante, al di là di queste elementari riflessioni semiotiche: perché attraverso il racconto soggettivo apriamo una finestra su come la narrazione della vita sia costitutiva dell’identità collettiva. Le nostre identità (comuni e non comuni) sono in gran parte la risultante di una narrazione condivisa e collettiva, che abbiamo ricevuto e che decidiamo di accettare. La cultura, la tradizione, la struttura sociale, i rapporti economici e ogni altro elemento costitutivo della nostra società (in primis le leggi) poggiano sulla narrazione di un mondo che condividiamo e nel quale ci poniamo e ci comportiamo, con un ruolo esibito e con le aspettative conseguenti, come personaggi di un racconto. Nella narrazione (cioè nel racconto) costruiamo un soggetto individuale o collettivo nuovo, che non esisteva prima, e che non esiste al di fuori del racconto.

Il nostro terzo gruppo di elementi (descrizioni, dialoghi, punti di svolta) sono la facies della vita degli altri con cui ci confrontiamo in continuazione. E sono anche l’aspetto esteriore dei testi fondativi delle società in cui viviamo, quelli che conservano e tramandano la tradizione di eventi, personaggi e valori costitutivi delle nostre identità. Noi siamo il risultato di quei racconti di vite e di quelle vite ideali raccontate: come dovrebbe essere l’uomo secondo le leggi, secondo l’etica, secondo la scienza, secondo la filosofia, secondo la religione. A costo di sembrare apodittici, certamente assertivi, potremmo dire che ciò che non è biologia è narrazione. E le regole della narrazione modificano potentemente i rapporti, le scelte, la costruzione culturale e identitaria delle nostre società; per cui, in ultima analisi, la narrazione della vita modifica la vita stessa.

Ma non possiamo parlare di autobiografia senza considerare la piattaforma di narrazione di sé più diffusa, pervasiva e totalizzante che caratterizza gran parte del pianeta: i social network. Quella che va in scena ogni giorno su miliardi di pagine web, attraverso la ramificata distribuzione dei social, è una forma di autobiografia che condiziona pesantemente le vite individuali, i sistemi relazionali di gruppo e che tuttavia si dipana in spazi rigidamente precostituiti, quelli appunto delle piattaforme, e sotto il controllo vigile dei proprietari, che intervengono direttamente con la funzione di giudici, moderatori o spesso di censori. Potremmo dire di co-autori. Per qualche motivo apparentemente incomprensibile, se analizzato da questo punto di vista, più della metà della popolazione mondiale (4,62 miliardi nel 2022) ha scelto di costruire la propria autobiografia pubblicamente su una piattaforma privata, accettando di donare non solo ai lettori, ma soprattutto ai proprietari, le informazioni che la riguardano.

Al di là del dato sociologico, stando all’oggetto del nostro breve articolo, è interessante notare che la narrazione che si realizza su queste piattaforme è caratterizzata da tre elementi del tutto nuovi rispetto a qualsiasi altra forma possibile nel passato: la velocità, la scala, i sistemi di gestione (cioè gli algoritmi). S’intende, con questi termini: velocità di diffusione; scalabilità della distribuzione dell’informazione; regole di gestione, controllo e potenziale manipolazione di ogni dato da parte delle piattaforme.

Detto ciò, è indubbio che i social network rappresentino ancora oggi una possibilità straordinariamente invitante, potente e agglomerante di narrazioni di sé. Forse, la gran parte degli utenti non si sarebbe mai sentito autorizzato a raccontare di sé in pubblico, per ragioni di timidezza, pudore, educazione o altro. Invece l’attrazione che esercitano queste piattaforme, unita alla socialità che permettono di sviluppare in qualche forma, attraverso la condivisione e la relazione a distanza, hanno letteralmente creato generazioni di autobiografi, aiutati dalla struttura narrativa suggerita dalla piattaforma medesima. Possiamo infatti affermare che gli algoritmi (e le piattaforme in generale) siano a tutti gli effetti elementi autoriali delle biografie presenti sul web, certamente assai determinanti nella forma che il racconto della nostra vita prende, ogni giorno, ogni minuto su queste piattaforme. Infatti, gli spazi e le regole stabiliti dalle piattaforme non sono neutrali, bensì favoriscono e incentivano un certo tipo di narrazione e ne disincentivano altri. L’algoritmo crea connessioni funzionali al ricircolo massimo delle informazioni, per cui noi autobiografi siamo spinti a creare un certo tipo di narrazione, nel tentativo di renderla più virale possibile, cioè massimamente distribuita sulla rete di relazioni. Quella narrazione di noi è anche il tramite con cui allacciamo o rafforziamo dei legami all’interno della rete, perciò, in seconda battuta, ci espone ad altre narrazioni che ci richiamano ai nostri obblighi interpretativi, in quanto lettori, e che influenzano i nostri comportamenti in quanto autori, a partire dai feedback che diamo (dal like al commento articolato). È un circolo ermeneutico ingegnerizzato.

Le connessioni che si creano attraverso queste narrazioni sono evidentemente funzionali al business della piattaforma, come è giusto e normale che sia, ma permeano i comportamenti e le scelte degli utenti, poiché, più o meno superficialmente, creano e plasmano delle comunità istantanee, temporanee, in cui delle identità fluide si modificano in continuazione per riuscire ad emergere con una propria voce. Non stiamo parlando di identità fasulle, di casi estremi di perdita della propria identità o cose simili, ma certamente dell’assunzione di identità transitorie da parte di quasi tutti gli utenti che, attraverso le autobiografie digitali che costruiscono sui social network, espongono all’interpretazione degli altri. Una transitorietà che ha a che fare, anch’essa, con la velocità di cambiamento, ma che è sempre più lenta rispetto alla velocità di circolazione dell’informazione: il messaggio pubblicato non permette alcun ripensamento, poiché lo screenshot è sempre in agguato ed eternizza ciò che in apparenza dovrebbe poter essere effimero. Ma nulla sul web è effimero e non vi è la possibilità di un incendio nella biblioteca di Alessandria che distrugga tutte le nostre autobiografie, perfino quelle di cui ci siamo pentiti. La biografia sul web è resiliente.

Un classico e importante esempio viene dall’esposizione dell’osceno, di ciò che normalmente è riservato, come per esempio la malattia, la sofferenza: il racconto, in qualche modo oggi incoraggiato, delle nostre malattie potrà rappresentare un problema nel futuro, quando alla stipula di una polizza assicurativa o di un mutuo, la fragilità della nostra salute (quand’anche fosse oggi completamente rimessa) sarà cagione di un rifiuto o di costi assai maggiori. A ciò si tenta di porre rimedio con leggi sul diritto all’oblio o simile, ma l’autobiografia, che scientemente esponiamo in pubblico, è difficilmente cancellabile.

Inoltre, tutto ciò ha a che fare anche con la scala, di cui abbiamo parlato. La quantità di informazioni e l’interazione fra esse modifica il sistema complessivo delle relazioni e delle informazioni medesime: la ripetizione e il rimbalzo di informazioni, poniamo scorrette, crea uno strato di comunicazioni ostinatamente dedicate a quell’argomento e costruisce un piano di interazioni quasi autonomo e refrattario alle sollecitazioni esterne, con un proprio regime di verità. A ciò si aggiungono, come agglutinandosi, i commenti e i commenti dei commenti, per cui la testualità, la narrazione di un fatto di vita, possiamo dire, viene del tutto non travisato, ma addirittura dimenticato, nel momento in cui l’oggetto di narrazione e discussione si sposta di numerosi piani successivi. Non si discute del fatto, ma del commento del commento al fatto. È una forma di post-verità assai diffusa: noi siamo esposti a infinite serie di elementi del terzo gruppo (descrizioni, dialoghi, punti di svolta), che vengono ripetuti, rilanciati e riproposti, a cui si aggiungono interpretazioni e commenti, attaccandosi ad essi come una parte integrante; queste interpretazioni danno valore diverso e nuovo alle narrazioni cui si riferiscono, per esempio avvalorandole o destituendole di valore e in poco tempo il punto di riferimento delle successive interpretazioni diventa questo nuovo testo accresciuto e modificato dai commenti e dalle interpretazioni. Un testo collettivo, potremmo dire, che costituisce una parte integrante della narrazione individuale originaria.

Si rende così necessario, a chi volesse ricostruire una narrazione a partire dalle tracce di cui dispone, come farebbero un archeologo o un filologo, comprendere prima il contesto sociale e il contesto emotivo in cui le informazioni nascono, si trasformano e vengono recepite. Contesti dinamici e cangianti che contribuiscono a creare i miliardi di sé narrati sul web, dando loro una forma coerente con i modelli previsti dai sistemi informatici e dagli algoritmi.

La domanda – a questo punto – è se l’ipse prenda il posto dell’idem, al di fuori della narrazione, in una identificazione che diviene un’impostura, quasi uno scambio di persona. Ma la risposta, forse, l’avremo solo fra qualche anno, quando davvero vedremo gli effetti di questa ormai non più nuova, ma certamente strana forma di narrazione della vita.

 

Bibliografia

 

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[*] Docente universitario nell’Università di Pavia, Professore a contratto di Scrittura creativa nell’Università degli Studi Niccolò Cusano, Roma.

 

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Note legali

 

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