A neuroethical approach to the educational relationship: Trauma-Informed Schools

 

di Diana Olivieri, PhD [1]

 

Accettato: 24 novembre 2022 – Pubblicato: 30 novembre 2022. 

Il presente contributo prima di essere pubblicato è stato sottoposto a procedura di referaggio (peer review) in base al regolamento editoriale della Rivista.

 

SOMMARIO

 

Abstract

Premessa

  1. Il trauma evolutivo come tipologia di trauma complesso
  2. Le pratiche scolastiche informate sul trauma: caratteristiche e obiettivi programmatici
  3. Una prospettiva neuroscientifica sui comportamenti problema correlati al trauma
  4. Strategie informate sul trauma, ad uso di educatori ed insegnanti

Considerazioni conclusive

Note legali

 

 

Abstract

Starting from an ethical perspective of collaboration between schools, social and health services in the recognition and management of childhood trauma, it appears essential to introduce the theme of the so-called trauma-informed schools. Trauma-sensitive approaches refer to inclusive school cultures, which strive to create environments, practices and educational policies capable of offering students care and support in trauma processing. Therefore, we will try to answer some key questions: what is developmental trauma and what is meant by trauma- informed practices? How can teachers recognize trauma-related behaviors? What can neuroscience tell us about it? What strategies can be used to support trauma-affected students?

 

Premessa

 

Mentre il mondo si confronta con il trauma collettivo e senza precedenti della crisi sanitaria ed economica, esacerbata da disuguaglianze sistemiche, comprendere l’impatto che il trauma ha sulle capacità di apprendimento in età evolutiva è più importante che mai.

Negli ultimi anni il trauma infantile si è elevato, a livello internazionale, come la più importante delle sfide da vincere in termini di crisi della salute pubblica.

I bambini possono manifestare stress traumatico a causa di qualunque situazione in cui sia presente una minaccia per la loro incolumità, come disastri naturali, essere stati testimoni di violenze, essere stati maltrattati o trascurati, essere costretti a lasciare le proprie case come rifugiati di guerra.

 L’espressione pratiche educative “informate sul trauma” o trauma-responsive (ossia “sensibili al trauma”), adottata stabilmente solo dal 2011, ha iniziato a diffondersi per l’interesse manifestato da alcuni specialisti dell’educazione già impegnati nell’ambito della giustizia sociale, un impegno che si ricollega direttamente al ruolo e alla responsabilità professionale di educatori ed insegnanti[2]. Non a caso le esperienze infantili traumatiche mostrano gradi di diffusione disomogenei nei diversi gruppi socioeconomici, essendo spesso radicate in forme di svantaggio ed oppressione di vario tipo.

Dal momento che le pratiche educative informate sul trauma costituiscono vere e proprie azioni per la giustizia sociale[3], lo sviluppo professionale informato sul trauma può essere a ragione considerato un modello pedagogico di formazione degli insegnanti per la giustizia sociale.

Il personale educativo è oggi invitato ad impegnarsi nello sviluppo professionale e nell’auto-valutazione, al fine di migliorare la propria capacità di coltivare il benessere degli studenti, assumendo, se necessario, il ruolo di figura alternativa di attaccamento, capace di fornire modelli operativi interni sul ruolo di adulti affidabili, capaci di offrire interazioni sane e adattive[4].

È importante sottolineare che per il personale educativo stesso, particolarmente suscettibile allo stress correlato al lavoro, una formazione professionale sensibile al trauma può favorire la capacità di identificare e affrontare il trauma vicario, la compassion fatigue (letteralmente “affaticamento compassionevole”) e il burnout, comuni tra coloro che lavorano con studenti traumatizzati, costituendo un vero e proprio fattore di protezione[5].

Pur trattandosi di un’area piuttosto recente della pratica educativa, negli Stati Uniti l’approccio informato sul trauma è già citato nei testi sulle politiche scolastiche, dove si riconosce che i traumi, i disturbi dell’attaccamento e lo stress post-traumatico sono fenomeni che gli insegnanti devono poter comprendere, attraverso un adeguato supporto alla loro formazione[6].

Nelle scuole il trauma può rivelarsi in una miriade di modi che rendono difficile l’apprendimento, soprattutto a causa della notevole compromissione delle funzioni di tipo esecutivo.

Una scuola informata sul trauma è dunque quella in cui affrontare l’impatto del trauma sull’apprendimento scolastico è al centro della missione educativa, con l’obiettivo ultimo di indirizzare gli studenti al raggiungimento del loro pieno potenziale.

 

 

1. Il trauma evolutivo come tipologia di trauma complesso

 

Premesso che un evento diventa traumatico, nel momento in cui supera la capacità di una persona di affrontarlo, lasciandola vulnerabile e alimentando la sua convinzione che il mondo non sia poi tanto sicuro, il trauma individuale è il risultato di uno o più eventi, vissuti come fisicamente o emotivamente dannosi o pericolosi per la propria vita, e che hanno effetti negativi duraturi sul funzionamento e sul benessere personale.

Se il trauma semplice può derivare da un fatto occasionale che mette in pericolo la vita (ad esempio un grave incidente automobilistico o un disastro naturale), il trauma complesso può insorgere come risposta a incidenti multipli di minaccia e/o violenza interpersonale, ad esempio incuria, abuso, bullismo, violenza domestica, aggressione sessuale, guerra, povertà[7].

Il trauma complesso descrive sia l’esposizione a molteplici eventi traumatici – di natura invasiva, pervasiva e interpersonale – sia gli effetti ad ampio raggio e a lungo termine di tale esposizione.

Quando si verifica un trauma complesso durante l’infanzia, in letteratura si parla di trauma evolutivo.

Si stima che quest’ultimo sia molto diffuso, per cui è probabile che studenti con traumi complessi siano presenti nella maggior parte delle classi della maggior parte delle scuole[8].

L’impatto del trauma, attraverso la sua interferenza sullo sviluppo neurobiologico, è particolarmente pervasivo nel primo decennio di vita, considerato che le prime esperienze creano il “palcoscenico” per risposte disadattive allo stress che dureranno tutta la vita.

Molte vittime di traumi evolutivi sfuggono all’identificazione come bisognose di aiuto, fino a quando non vengono all’attenzione dei Servizi sociali o del Tribunale per i minorenni, a causa del loro coinvolgimento in comportamenti ad alto rischio, come l’abuso di sostanze o attività delinquenziali[9]. La tipologia di comportamento problema manifestata dal bambino o dall’adolescente può dipendere dalla natura del trauma infantile che ha vissuto. La ricerca mostra, ad esempio, che coloro che sono stati esposti ad incuria e trascuratezza tendono a mostrare comportamenti problematici di tipo internalizzante e/o esternalizzante, mentre coloro che hanno subito abusi fisici o sessuali tendono a impegnarsi maggiormente in comportamenti oppositivi[10].

Oltre all’impatto psicologico dell’esposizione al trauma, ad essere abbondantemente riconosciuto nella categoria “Trauma e disturbi stress correlati” del DSM-V[11] è l’impatto del trauma sul neurosviluppo, per cui bambini e adolescenti colpiti da trauma evolutivo tenderanno a rispondere al loro ambiente con un accesso limitato alle risorse presenti nella loro corteccia cerebrale.

Lo stress traumatico in corso sul cervello infantile può infatti creare difficoltà con l’apprendimento e la memoria, il senso di sé, la concentrazione e l’attenzione, l’autoregolazione, il linguaggio, la capacità di pianificazione e organizzazione, il problem solving, la regolazione delle emozioni e la capacità di formare relazioni positive con gli altri, inclusi gli insegnanti e le figure autoritarie, a causa di una tendenza ad interpretare erroneamente i segnali sociali, che porta a presumere che gli altri abbiano l’intento di ferire o la volontà di tradire la fiducia riposta in loro[12].

Sebbene gli effetti dannosi del trauma evolutivo siano noti da tempo, il primo studio ad aver affrontato pienamente la questione è stato pubblicato solo nel 1998, a seguito di una ricerca condotta negli Stati Uniti dai Centers for Disease Control and Prevention, che ha consentito di identificare dieci specifiche categorie di esperienze traumatiche che possono colpire la popolazione giovanile, rinominate “Esperienze Infantili Avverse” (ACEs- Adverse Childhood Experiences)[13], ossia abusi fisici, sessuali ed emotivi, trascuratezza fisica ed emotiva, violenza domestica, abuso di sostanze o difficoltà legate alla salute mentale di un membro della famiglia, separazione o divorzio dei genitori.

La presenza di quattro o più ACEs, sperimentate entro i primi 18 anni di età, è stata collegata ad un aumento significativo del rischio di esiti negativi e problemi di salute mentale più avanti nella vita, tra cui la perdita di anni scolastici, provvedimenti disciplinari duri come la sospensione, ritardo del linguaggio, depressione, alcolismo, abuso di droghe, pensieri suicidi intrusivi o veri e propri tentativi di suicidio, inserimento tra gli studenti BES (ossia identificati con bisogni educativi speciali).

Nel 2019 i costi relativi al trattamento annuale dell’impatto delle ACEs, vissute tra l’infanzia e l’adolescenza, sono stati di 581 miliardi di euro in Europa e di 748 miliardi di dollari in Nord America[14].

Successivi studi[15] hanno indagato una gamma più ampia di categorie di ACEs, rispetto a quelle originariamente considerate, includendo bullismo, criminalità all’interno della famiglia, crescere in una famiglia monogenitoriale, morte di un genitore/parente/amico intimo, gravi malattie o lesioni del bambino/adolescente o di un membro della sua famiglia, povertà/problemi economici, relazione deficitaria genitore-figlio, assistere a violenze o crimini perpetrati ai danni dei propri cari[16].

C’è di buono che amare la scuola e avere almeno un insegnante che si preoccupi dei suoi studenti, in qualità di “Esperienze Infantili Benefiche” (BCEs- Benevolent Childhood Experiences), possono attenuare l’impatto negativo delle esperienze avverse in età evolutiva[17].

 

 

2. Le pratiche scolastiche informate sul trauma: caratteristiche e obiettivi programmatici

 

Per i bambini e gli adolescenti che hanno subito traumi, la scuola può essere un luogo stressante e difficile, poiché stanno cercando di adattarsi ad un ambiente che impone loro aspettative che potrebbero avere difficoltà a soddisfare.

È proprio attraverso l’adozione di approcci informati sul trauma, sensibili e prevedibili nella loro attuazione, che le scuole possono aprire uno spazio etico per il sano apprendimento di bambini e adolescenti traumatizzati.

Sulla base di una rassegna interdisciplinare della letteratura sulle abilità e “mentalità” o mindsets necessarie per promuovere l’apprendimento negli studenti, l’organizzazione no-profit Turnaround for Children ha sviluppato il programma Building Blocks for Learning (“Elementi Costitutivi per l’Apprendimento”), che anziché concentrarsi sul “cosa” gli studenti hanno bisogno di imparare, si focalizza invece sul “come” gli studenti imparano[18].

Il primo elemento o “livello” costitutivo dell’apprendimento può essere definito complessivamente come sviluppo sano, che include attaccamento sicuro, capacità di gestione dello stress e capacità di autoregolazione, mentre il secondo elemento è la “prontezza” o predisposizione alla vita scolastica, che include consapevolezza di sé, abilità relazionali e funzioni esecutive. Gli elementi costitutivi di questi due livelli sono le principali abilità che vengono compromesse dal trauma evolutivo.

 

Elementi costitutivi per l’apprendimento, secondo il programma “Building Blocks for Learning”

 

Gli approcci informati sul trauma, promuovendo attivamente lo sviluppo di abilità prima di tutto in queste aree, e successivamente nelle aree del senso di appartenenza, dell’autoefficacia e della resilienza, costituiscono quindi best practices che dovrebbero essere incorporate in ogni scuola, come supporti universali all’apprendimento.

Nei contesti educativi, le pratiche informate sul trauma adottano un approccio globale basato sui punti di forza, in cui tutto il personale scolastico (docente e ATA) comprende l’impatto del trauma evolutivo sugli studenti e sa rispondere efficacemente ad esso. Nello specifico, un approccio basato sui punti di forza andrà in cerca di opportunità per integrare e supportare abilità e competenze presenti nello studente traumatizzato, piuttosto che concentrarsi sul suo problema o sulle sue preoccupazioni.

L’adozione di un approccio pratico informato sul trauma richiederà alla scuola di aderire alle “4 R”:

  1. rendersi conto dell’impatto diffuso del trauma sulle relazioni, sul comportamento e sull’apprendimento degli studenti, identificando i possibili percorsi di recupero e di potenziamento delle lifeskills, affinché possano raggiungere il loro pieno potenziale;
  2. riconoscerei segni e i sintomi del trauma;
  3. rispondere integrando la conoscenza del trauma in tutte le sfaccettature del sistema, adattando politiche educative, procedure scolastiche e pratiche didattiche ai bisogni degli studenti;
  4. resistere alla ri-traumatizzazione degli studenti colpiti dal trauma, contrastando l’innesco di fattori scatenanti non necessari (come la sollecitazione del ricordo dell’evento traumatico)[19].

È importante specificare che la pratica informata sul trauma non consiste nel chiedere agli insegnanti o al personale scolastico più in generale di trasformarsi in terapeuti, assistenti sociali o psicologi scolastici, ma nel sostenerli a prendere coscienza del possibile impatto del trauma sull’apprendimento, in modo che possano aiutare gli studenti a sentirsi al sicuro, essendo preparati a gestire le manifestazioni comportamentali correlate ai vissuti traumatici.

Solo allora saranno in grado di rispondere in modo da promuovere la resilienza degli studenti “problematici”, e di decidere se e quando eventualmente indirizzarli ai servizi per la salute mentale, interfacciandosi con i servizi sociali.

 

 

3. Una prospettiva neuroscientifica sui comportamenti problema correlati al trauma

 

Un fattore chiave nel movimento informato sul trauma è la considerazione delle conoscenze neuroscientifiche relative ai meccanismi di attacco-fuga-congelamento.

Essere esposti allo stress durante l’infanzia, imparando ad affrontarlo, fa parte integrante di uno sviluppo sano, essenziale per la sopravvivenza e per imparare a gestire le difficoltà. Tuttavia, in presenza di reiterate e persistenti situazioni avverse o difficili, il sistema di risposta allo stress viene attivato ripetutamente, innescando una serie di reazioni fisiologiche, ormonali e neurochimiche.

Si ritiene tradizionalmente che questo sistema comprenda due sotto-sistemi, influenzati dall’amigdala e dall’ipotalamo: le reazioni di attacco o fuga sono associate all’azione del sistema simpatico, che accelera la frequenza e la gittata cardiaca, aumenta la pressione arteriosa, inibisce la funzione digestiva, aumenta la respirazione e il tono muscolare, sopprime il dolore, mentre il meccanismo del congelamento è una forma di inibizione comportamentale accompagnata da una decelerazione della frequenza cardiaca, guidata dall’attivazione del sistema parasimpatico[20]. Il congelamento non è dunque uno stato passivo, ma un “freno” parasimpatico sul sistema motorio, il cui meccanismo dipende dalla maggiore connettività in termini di proiezioni dall’amigdala al tronco encefalico, nonché dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che di fronte ad una percezione di minaccia provoca il rilascio di cortisolo in anomale quantità[21].

Tutti i tipi di stress possono attivare questo sistema, una volta che l’amigdala, che è il centro di allarme o “rilevatore di fumo” del corpo umano, avverte un pericolo[22]. È quest’ultima, infatti, a giocare un ruolo chiave nel comportamento difensivo e nel passaggio da una modalità difensiva all’altra.

Quando gli studenti colpiti da un trauma sperimentano un altro incidente che percepiscono come stressante o quando viene loro ricordato un evento traumatico (ossia quando quest’ultimo viene “riattivato”), è probabile che passino ad uno stato di iper-attivazione (che a sua volta potrà esprimersi attraverso modalità di attacco o fuga), o alternativamente ad uno stato di inibizione (che si esprimerà attraverso il congelamento, fino alla vera e propria dissociazione).

Il corpo ha una “finestra di tolleranza”, che è la zona ottimale di eccitazione in cui funziona al suo meglio. Quando le persone escono da questa finestra di tolleranza, il corpo entra in modalità di “sopravvivenza”.

In classe, un bambino in uno stato di iper-attivazione avrà probabilmente difficoltà a prestare attenzione, sembrerà iperattivo o potrebbe mostrarsi oppositivo e con un atteggiamento di sfida. Al contrario, i bambini in uno stato di dissociazione tenderanno a ritirarsi e ad estraniarsi dal mondo; sembrerà che siano distaccati, oppure che sognino ad occhi aperti[23].

Quando i bambini hanno accesso a relazioni di attaccamento capaci di offrire supporto, essi sono in grado di attingere alla loro resilienza e alle esperienze positive per riuscire a superare eventi stressanti (come ad es. un lutto), adattandovisi con successo e manifestando solo lievi sintomi “sani” e temporanei correlati al trauma, per poi ritornare ai valori di base[24].

Ma se l’esposizione a frequenti fattori di stress traumatico, prolungato e intenso, avviene in assenza di sufficienti supporti protettivi (ad es. se i caregiver non sono riusciti a fornire sicurezza), a verificarsi è il cosiddetto stress tossico. Ciò comporta che il sistema di risposta allo stress venga attivato in modo persistente, determinando un effetto di “usura” sul corpo, noto come carico allostatico, associato a grave disagio, funzionamento disadattivo, sviluppo compromesso in numerose aree e risposte neurobiologiche disfunzionali, mobilitate nel tentativo di sopravvivere al pericolo.

Sebbene in contesti relazionali capaci di offrire supporto queste reazioni neurobiologiche siano mezzi adattivi per far fronte alle difficoltà, l’esposizione frequente e prolungata al trauma, compromettendo la capacità di fare ritorno ad un livello di funzionamento di base, fa sì che queste risposte diventino il modo abituale di interagire con il mondo, anche in assenza di reali pericoli.

La ricerca mostra infatti che quando si verifica una risposta di tipo “attacco, fuga o congelamento”, l’organismo entra in uno stato in cui ignora le informazioni non vitali, per concentrarsi totalmente sulla minaccia percepita, contro la quale si sta preparando a combattere o dalla quale si sta preparando a scappare. Questo sistema di risposta viene riattivato intensamente quando gli stimoli d’innesco si generalizzano a seguito dell’iper-sensibilizzazione dovuta ad un’eccessiva attivazione dell’amigdala, con la conseguenza che anche minacce di minore entità possono produrre effetti terrorizzanti notevolmente amplificati, come quando un bambino che ha già subito un trauma in relazione al suono di uno sparo può apparire estremamente angosciato a seguito di un forte rumore, di natura variabile, percepito nel suo ambiente[25].

Questa attivazione sostenuta e frequente della risposta può alterare negativamente i sistemi neurali in via di sviluppo, sopprimere la risposta immunitaria, determinare una sovrapproduzione di connessioni neurali nelle aree associate a paura, ansia e risposte impulsive, come l’amigdala, nonché danneggiare le aree implicate nel funzionamento esecutivo, nella pianificazione, nella risposta allo stress e nella regolazione del comportamento e della memoria – come l’ippocampo, il corpo calloso, il cervelletto e la corteccia prefrontale – riducendone il volume.

Durante l’iper-attivazione il complesso rettiliano, o survival brain, prende il sopravvento e disattiva il cervello “pensante”, o learning brain, per dare priorità alla velocità di risposta. La continua iper-vigilanza associata al trauma, interrompendo i circuiti neurali tra cervello rettiliano e neocorteccia, può compromettere la capacità di integrare efficacemente le informazioni da cui imparare e di far fronte alle esperienze, per cui ad essere attivate saranno risposte istintive e comportamentali, al posto di decisioni prese razionalmente. Quando il cervello “pensante” è offline, gli studenti entrano in uno stato in cui non sono predisposti ad apprendere.

I forti percorsi connettivi che si formano tra cervello rettiliano e neocorteccia sono le strutture neurali richieste per la capacità di autoregolazione. In loro assenza, la capacità della corteccia prefrontale di monitorare gli istinti di sopravvivenza del cervello rettiliano risulterà gravemente compromessa.

L’incapacità dei bambini traumatizzati di mantenere un livello tollerabile di attivazione o di contenere la loro paura e ansia è alla radice di molti dei comportamenti autodistruttivi e provocatori, che interferiscono con i loro risultati scolastici e con la loro padronanza sociale.

Le neuroscienze ci offrono una chiara spiegazione del perché le pratiche disciplinari tradizionali non siano affatto efficaci con un’alta percentuale di studenti “difficili”.

Bambini e adolescenti cresciuti in ambienti domestici tossici possono avere livelli più elevati di cortisolo che inonda il loro cervello, responsabile di innescare la modalità cerebrale di sopravvivenza. Uno studente che si trovi in uno stato intensificato di questo tipo, apparirà fuori controllo e in sostanziale ritardo sulla sua “tabella di sviluppo”[26]. La condizione di escalation del comportamento problema e di intensificazione dei vissuti problematici lo renderà fisiologicamente incapacitato ad acquisire nuove conoscenze o a risolvere problemi. Non potendo in alcun modo funzionare a livello di attivazione dei lobi frontali, fisiologicamente si troverà nell’impossibilità di imparare.

In momenti come questi, la dipendenza dalle cure e attenzioni di una figura adulta positiva che gli insegni come autoregolarsi e sentirsi al sicuro è pressoché totale.

Il modo tradizionale in cui l’insegnante tende a rivolgersi ad uno studente che si trovi in questo stato consisterà nell’affrontarlo e nel cercare di confrontarsi con lui, con l’inevitabile effetto di spingerlo verso uno stato emotivo ancora più alterato di sfida e provocazione.

Quando l’insegnante rimprovera o punisce il comportamento problema nella sua fase di escalation – attraverso richiami verbali o note sul registro, fino ad arrivare al caso estremo di paventare allo studente la richiesta al consiglio di classe di un provvedimento disciplinare duro, come la sospensione dalle lezioni – lo studente, in quel momento, non ha la capacità di “connettersi” con la reazione dell’insegnante[27]; non è pronto ad imparare dalla sua disregolazione emotiva, a meno che l’insegnante non gli insegni come fare. Quando si sarà calmato, l’insegnante potrà aiutarlo a passare da un funzionamento che attinge alla parte inferiore del cervello, ad un funzionamento che attinga ai lobi prefrontali, attraverso il quale è possibile imparare a gestire i conflitti e risolvere i problemi.

È importante riconoscere che il comportamento a cui l’insegnante sta assistendo è radicato nella paura del fallimento e nel fatto che lo studente non si senta emotivamente e/o fisicamente al sicuro.

Lo sviluppo di relazioni positive con gli studenti insegna loro modi alternativi per gestire situazioni specifiche, come ad esempio comunicare agli insegnanti quando stanno per sentire l’impulso di reagire, innescato dal loro tronco encefalico. Insegnare agli studenti come rispondere quando sentono questa spinta offre loro delle opzioni diverse, che possono usare per autoregolarsi.

 

 

4. Strategie informate sul trauma, ad uso di educatori ed insegnanti

 

L’insegnamento informato sul trauma trova solido fondamento in pratiche di gestione della classe strategicamente orientate (come ad esempio la giustizia riparativa, sulla quale ritorneremo a breve), che facilitino il cambiamento sia a livello di comportamento tenuto in classe dagli alunni, sia di risposta da parte degli insegnanti, attraverso il dialogo e la riflessione.

Approcci quali la psicoeducazione, che include l’apprendimento socio-emotivo e metacognitivo, le pedagogie relazionali, come le pratiche consapevoli dell’attaccamento e la tradizione critica freiriana, e le pedagogie collaborative e basate sul gioco, possono contribuire a mitigare gli effetti del trauma attraverso il supporto di risposte prosociali, evitando aspettative comportamentali che vadano oltre la capacità evolutiva dello studente[28].

Le neuroscienze del trauma ci informano che la capacità di apprendimento dei bambini e degli adolescenti traumatizzati è notevolmente compromessa, dal momento che la loro neurobiologia è stressata e il loro stato emotivo è in continuo mutamento. Il cambiamento è percepito come pericoloso, nuove esperienze e nuove informazioni portano con sé elementi di minaccia e incertezza, la memoria è sotto pressione. A prendere il sopravvento sono reazioni comportamentali che poco hanno a che fare con il ragionamento, note come esternalizzazioni.

Spesso gli studenti che presentano sintomi esternalizzanti vengono indirizzati a piani di intervento comportamentale, a causa del loro coinvolgimento nelle questioni disciplinari scolastiche (in termini di richiami, sospensioni ed espulsioni).

Purtroppo molti insegnanti non sanno che i metodi disciplinari tradizionali, basati sulle conseguenze, esacerbano, piuttosto che aiutare, il comportamento provocatorio degli studenti traumatizzati.

In molte circostanze, educatori ed insegnanti tenderanno ad intensificare involontariamente i comportamenti difficili degli studenti, reagendo in modi che fanno sentire questi ultimi insicuri, minacciati, esclusi o umiliati pubblicamente.

Riconoscere che i comportamenti difficili e sfidanti sono spesso solo il sintomo della disregolazione emotiva, costituisce un importante primo passo per affrontare in modo più efficace le emozioni sottostanti, piuttosto che concentrarsi solamente sul comportamento. In tal senso, un insegnante potrebbe considerare il comportamento distratto di uno studente come acting out di una tendenza oppositiva, quando in realtà lo studente potrebbe non essere in grado di concentrarsi, a causa di un vissuto di paura per la sua incolumità[29]. In particolare, se la fonte della minaccia percepita è rappresentata dal caregiver primario, allora al bambino sarà totalmente preclusa ogni possibilità di scappare dalla situazione traumatica. L’unica opzione disponibile sarà rispondere con il “congelamento”, bloccandosi cognitivamente (e spesso anche fisicamente), per esaminare la situazione e determinare quale sia il modo migliore per affrontarla[30].

Questi studenti sembrano sfuggire all’attenzione: limitare la propria presenza, rendendosi quasi invisibili, è una strategia di autoprotezione che può essere appresa in giovanissima età. Formare una relazione con loro, nascosti come sono dietro il muro protettivo dell’apatia, può risultare particolarmente impegnativo.

Le risposte di “congelamento” sono spesso interpretate erroneamente da educatori e insegnanti come manifestazioni di non-conformità, insubordinazione o oppositività, quando in realtà sono generalmente risposte al sentirsi sopraffatti. Ne sono un esempio quelle situazioni scolastiche in cui uno studente si blocca e non completa un compito o una richiesta dati dall’insegnante.

Poiché tale comportamento è spesso percepito come rifiuto di obbedire, l’insegnante può emettere un’ulteriore richiesta, più minacciosa, che a sua volta causa ulteriore ansia e forti sentimenti di minaccia nell’alunno, fino a livelli estremi di terrore, portando al rinforzo della risposta di congelamento, oppure alla dissociazione, con manifestazioni tipiche di distacco, intorpidimento emotivo e disimpegno dagli stimoli del mondo esterno; la maggiore gravità del trauma si associa ad una maggiore probabilità di dissociazione[31].

È evidente come la profonda e radicata sfiducia nei confronti delle figure d’autorità, associata a un’ipersensibilità alle percezioni di pericolo o minaccia, compromettano seriamente la soddisfazione del fondamentale bisogno di questi studenti di provare un senso di appartenenza alla scuola. Quest’ultimo è un forte predittore di resilienza, a fronte delle esperienze avverse dell’infanzia; i ragazzi che hanno vissuto molteplici avversità infantili, ma che hanno anche percepito un senso di appartenenza alla scuola, avranno una qualità di vita significativamente migliore, rispetto a quelli che hanno vissuto lo stesso numero di avversità, ma che non hanno provato un’analoga sensazione di appartenenza all’ambiente scolastico[32].

È dunque fondamentale che gli studenti con una storia traumatica alle spalle non vengano puniti per aver mostrato sintomi del trauma – che includono le risposte di fuga (ritiro, comportamenti di distanziamento, sintomi internalizzanti), di attacco (aggressività verbale e/o fisica, sintomi esternalizzanti) e di congelamento (rifiutare di impegnarsi nelle attività proposte dall’insegnante, nascondersi, sdraiarsi sul pavimento) – ma che, anzi, possano ricevere un adeguato supporto per consolidare la loro sicurezza emotiva.

Gli insegnanti potranno fornire sicurezza emotiva ai loro studenti attraverso strategie preventive come insegnare loro la capacità di autoregolazione (ad esempio attraverso esercizi di respirazione e meditazione), stabilendo confini, regole, aspettative e conseguenze chiari, e informando gli studenti con congruo anticipo in merito ad eventuali cambiamenti nella routine scolastica[33].

Rispondere a comportamenti negativi con incentivi o risposte basate sulla minaccia dovrebbe essere evitato, poiché gli studenti colpiti dal trauma potrebbero avere capacità di elaborazione della ricompensa e del rinforzo poco sviluppate, e di conseguenza non essere in grado di usare il ragionamento o la logica per modificare il loro comportamento. Al contrario, strategie di insegnamento efficaci per gli studenti colpiti da traumi consisteranno nel fornire spunti visivi e mnemonici per stimolare la memoria a breve termine, scomporre compiti e valutazioni in passaggi più facilmente gestibili, ripetere le informazioni, fornire istruzioni scritte e scaffolding[34].

Gli insegnanti che scelgano di abbracciare un approccio informato sul trauma non abbandoneranno gli studenti che si comportano male, esacerbandone i sentimenti di alienazione. Piuttosto, resteranno al loro fianco e li aiuteranno a rimediare. Tutto ciò in ottemperanza al principio fondamentale, secondo cui le relazioni, essendo più forti e solide delle momentanee disconnessioni e incomprensioni, possono essere riparate.

Questa idea di “disciplina riparativa”, già adottata in alcune scuole, è il segno distintivo delle scuole informate sul trauma, la cui sensibilità si concentra tipicamente sulla riparazione del danno, attraverso processi inclusivi che spostano l’attenzione dalla punizione della trasgressione comportamentale alla comprensione del suo disvalore e della sua incompatibilità con il consolidamento di un senso di appartenenza alla comunità scolastica[35].

 

 

Considerazioni conclusive

 

Sebbene sia noto da tempo che il trauma ha un impatto molto negativo su bambini e adolescenti, l’attenzione sulle scuole come sistemi appropriati per mitigarne gli effetti è ancora agli inizi[36].

Il fatto che la guarigione dal trauma richieda la ripetizione di esperienze positive, al fine di costruire nuove reti neurali, colloca la scuola in una posizione unica per sperimentare tale ripetizione benefica, considerato che bambini e adolescenti trascorrono al suo interno circa metà delle loro ore di veglia.

I movimenti a favore delle scuole informate sul trauma, nati negli Stati Uniti per rispondere alle conseguenze tragiche dei cosiddetti school shootings, ossia le sparatorie nelle scuole, stanno iniziando a prendere slancio anche in Europa, in Paesi come la Scozia, il Galles e l’Irlanda.

I risultati iniziali della ricerca internazionale, che esplora l’impatto degli interventi di formazione professionale orientati alla sensibilità al trauma negli ambienti educativi, stanno fornendo risultati incoraggianti, come dimostra lo studio di Dorado et al.[37], dedicato alla valutazione del programma scolastico informato sul trauma Healthy Environments and Response to Trauma in Schools (HEARTS), proposto in diverse scuole di San Francisco.

Anche l’esperienza italiana ha dimostrato di porre un’attenzione significativa allo sviluppo del benessere nelle scuole. Un esempio virtuoso di approccio scolastico informato sul trauma proviene dal team emergenze Cesvi, che tra il 2016 e il 2017 ha fornito supporto psicoeducativo a 12 Istituti scolastici comprensivi marchigiani, tra le province di Macerata, Ascoli Piceno e Fermo, per un totale di oltre 170 classi di scuola primaria e secondaria di primo grado (coinvolgendo complessivamente 483 insegnanti, 241 genitori e 3259 alunni). L’obiettivo era aiutare gli studenti ad elaborare il trauma causato dal sisma del 24 agosto 2016, fornendo a genitori e insegnanti, attraverso il progetto Scuola Resiliente, gli strumenti per prevenire la cronicizzazione del disagio psicologico dei bambini vittime del sisma, accompagnandoli in un percorso di ascolto e confronto durante l’anno scolastico 2016-2017. Come afferma Daniela Bernacchi, già amministratore delegato Cesvi, “La scuola diventa così il punto di partenza per ritrovare una situazione di normalità, grazie al rapporto privilegiato che gli insegnanti riescono a creare con i bambini all’interno delle classi”[38].

Il toolkit prodotto dal Cesvi[39]  ha inteso valorizzare le buone pratiche sperimentate, con l’obiettivo di formalizzare un modello d’intervento replicabile in altre situazioni di disagio psicologico latente, riconducibile a diverse tipologie di trauma che possono coinvolgere la popolazione scolastica, come lutti, situazioni di abuso o incuria, bullismo e altri fenomeni di esclusione sociale.

Se è vero che, dal punto di vista del neurosviluppo, il cervello di bambini e adolescenti traumatizzati ha imparato ad associare gli adulti a emozioni negative, attraverso il sospetto, l’evitamento o l’aperta ostilità, allora l’elemento relazionale che più di tutti aiuterà questi giovani ad affrontare i tre pilastri della guarigione – ossia lo sviluppo della sicurezza, la compliance al legame curativo e la gestione delle emozioni[40] – consisterà nel dimostrarsi adulti disponibili e capaci di accettazione positiva incondizionata[41], attraverso la proposta di una relazione educativa sufficientemente sensibile.

 

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[1] Docente a contratto di Pedagogia speciale, Criminologia minorile e Sociologia della devianza presso l’Università Niccolò Cusano Telematica Roma; Psicologa; Dottore di ricerca in Scienze della cognizione e della formazione.

Adjunct professor of Special education, Youth crime and Sociology of deviance at Niccolò Cusano University of Rome; Doctor of Clinical Psychology; Doctor of research in Education and Cognitive Science (Ph. D.)

 

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[2] S.A. Gherardi, R.E. Flinn, V.B. Jaure, Trauma-Sensitive Schools and Social Justice: A Critical Analysis, in The Urban Review, n. 3, pp. 482-504, 2020.

[3] S.D. Crosby, P. Howell, S. Thomas, Social justice education through trauma-informed teaching, in Middle School Journal, n. 4, pp. 15-23, 2018.

[4] P. Riley, Attachment Theory and Teacher Student relationships, Routledge, London, 2010.

[5] S. Hydon, M. Wong, A.K. Langley, B.D. Stein, S.H. Kataoka, Preventing secondary traumatic stress in educators, in Child & Adolescent Psychiatric Clinics of North America, n. 2, pp. 319-33, 2015.

[6] M.S. Thomas, S. Crosby, J. Vanderhaar, Trauma-informed practices in schools across two decades: An interdisciplinary review of research, in Review of Research in Education, n. 1, pp. 422-452, 2019.

[7] J. McAloon, Complex trauma, The Conversation, October 27, 2014.

[8] UNESCO, Education as healing: Addressing the trauma of displacement through social and emotional learning, Global Education Monitoring Report, Policy paper n. 38, 2019.

[9] C.B. Dierkhising, S.J. Ko, B. Woods-Jaeger, E.C. Briggs, R. Lee, R.S. Pynoos, Trauma histories among justice involved youth, in European Journal of Psychotraumatology, n. 4, pp. 1-12, 2013.

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[16] Assistere ad un evento può rivelarsi traumatico, soprattutto quando comportando una minaccia alla vita delle proprie figure di attaccamento, comporta anche un’auto-percezione di insicurezza nel bambino, che da esse dipende.

[17] A.J. Narayan, L.M. Rivera, R.E. Bernstein, W.W. Harris, A.F. Lieberman, Positive childhood experiences predict less psychopathology and stress in pregnant women with childhood adversity: A pilot study of the benevolent childhood experiences (BCEs) scale, in Child Abuse & Neglect, n. 78, pp. 19-30, 2018.

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[38] Blog, https://www.cesvi.org/notizie/terremoto-centro-italia-scuola-resiliente/, 23 settembre 2016.

[39] Cesvi, Una scuola resiliente. Linee guida per il supporto e la prevenzione psicologica nelle scuole in situazioni di emergenza, 2017, https://www.cesvi.org/wp-content/uploads/2017/08/Una_scuola_resiliente_Linee_Guida.pdf

[40] H. Bath, The three pillars of trauma-informed care, in Reclaiming Children and Youth, n. 17, pp. 17-21, 2008.

[41] C.R Rogers, La terapia centrata sul cliente, Giunti, Firenze, 2013 [Orig. 1957].

 

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