di Gian Luigi Cecchini 

Professore Ordinario a.r. di Diritto internazionale nell’Università degli Studi Niccolò Cusano, Roma

 

Accettato: 17 novembre 2022 – Pubblicato: 30 novembre 2022. 

Il presente contributo prima di essere pubblicato è stato sottoposto a procedura di referaggio (peer review) in base al regolamento editoriale della Rivista.

 

 

SOMMARIO: 

 

  1. Prolusione, ovvero la natura e i diritti del feto.
  2. I diritti umani.
  3. Lo stato biologico del feto.
  4. I diritti fondamentali del feto.
  5. Il diritto alla vita.
  6. I diritti del feto espressione di fede religiosa e di ipotesi personali?
  7. Il diritto alla vita come principio di dignità umana.
  8. L’emergere del margine di apprezzamento nazionale a protezione del nascituro.
  9. Margine di apprezzamento nazionale e pluralismo giuridico.
  10. Margine di apprezzamento nazionale e pluralismo culturale.
  11. I fondamenti del margine di apprezzamento nazionale.
  12. La mancanza di definizione delle nozioni di vita diritto alla vita nel diritto europeo.
  13. La mancanza di consenso europeo sulla natura e sullo stato giuridico del nascituro.
  14. L’impatto del margine di apprezzamento nazionale sulla tutela del diritto alla vita del nascituro.
  15. Verifica della compatibilità.
  16. Il miraggio di una incerta conclusione.

Note Legali

 

 

 1.  Prolusione, ovvero la natura e i diritti del feto.

Attualmente nessun problema etico più di quello sullo status e i diritti del feto suscita aspre polemiche e accesi dibattiti.Ma molte di queste discussioni non hanno nulla a che vedere con una domanda oggettiva sul punto in discussione – scientifica o filosofica che sia è poco rilevante – ove si consideri che esse incarnano piuttosto lotte ideologiche, il cui unico interesse è la difesa e l’imposizione con ogni mezzo della propria visione delle cose. Posta così la quistione, si capisce il motivo per cui non sia facile mantenere in questo dibattito la serenità che dovrebbe addirsi ad un’analisi giuridica, con inevitabili riflessi di natura filosofica. Ci sono due ordini di difficoltà:mantenere, prima di tutto, l’obiettività atteso che il tono appassionato dei dibattiti sembra privilegiare piuttosto la ricerca di compromessi o le verità preordinate; radicare l’analisi della quistione entro un quadro di solidi principî, la qual cosa è di per sé un problema particolarmente complesso. In effetti, non solo non è facile stabilire la natura e lo status esatto del feto, tant’è che, ancora una volta, di fronte a un certo numero di obiezioni, spesso non siamo in grado di attribuire il giusto valore alle obiezioni a sostegno dei diritti del feto. Infatti, la quistione dello status e dei diritti del feto si scontra generalmente con domande piuttosto difficili: il feto è davvero un essere umano? è una persona o solo una massa di materia più o meno organizzata? Ha un’esistenza indipendente o è parte del corpo della madre?

Il feto ha lo status di persona ab origine, lo acquisisce solo per il tramite del diritto positivo, o è la risultante di una particolare consuetudine? Come confrontare i suoi diritti, ammesso che ne abbia, con quelli di sua madre? Sono questi gli interrogativi e i dubbi che preoccupano lo studioso, non foss’altro perché lo obbligano ad una particolare attenzione nei confronti del nascituro.

 

 2.  I diritti umani.

È ben vero che i diritti del feto si inseriscono nel quadro più generale dei diritti umani, ma, a questo punto, si impongono alcune riflessioni circa la natura e il fondamento dei diritti della persona. A mio avviso, un buon modo per capire cos’è un diritto è confrontare il significato di questa parola con quelli delle parole che più gli somigliano. Delle tre parole: dovuto, diritto e dovere, dovuto è quello principale. Se certe cose mi sono dovute da altri, significa che ne ho diritto. Ma anche se ho diritto a ciò che mi è dovuto, un diritto non è cosa che mi è dovuta. Allo stesso modo, ci sono cose che io devo agli altri: non ho alcun diritto su di esse; ho semmai il dovere di restituirle a colui al quale le devo. Ne consegue che il concetto di diritto è legato a quello di dovere e a quello di dovuto. Si noti inoltre che le parole “dovuto”, “dovere” e “diritto” sono correlate al concetto di “giustizia”.

Se si ha riguardo ai diritti, si nota come questi incidano concretamente più dei fini: fini che, naturali o determinati dalla ragione, sono il riflesso di determinati mezzi ai quali ultimi si ha diritto nella stessa misura in cui si impongono i fini. Come la natura impone i propri fini all’essere umano, così questo usa i mezzi per il conseguimento dei propri fini e i diritti che ne derivano.

L’essere umano è diverso dagli altri animali in quanto dotato di ragione e in quanto capace di libera scelta. È dunque la ragione ad essere soggetta al diritto, proprio perché capace non solo di usare i mezzi in vista di un fine, ma anche, più radicalmente, per proporre i fini e scegliere liberamente i mezzi che ad essa conducono. I diritti dell’uomo, quindi, appartengono a quest’ultimo individualmente e non solo come membro di una specie o in quanto parte di un tutto più ampio.

I diritti umani sono inalienabili perché radicati nella loro specificità e individualità, sicché può ben dirsi che i diritti siano anzitutto determinati dalla natura umana. A questi diritti innati, o naturali, se ne aggiungono altri per promessa, contratto, legge o anche per consuetudine. Ma questi diritti ‘complementari’, per essere legittimi, non devono mai essere in contraddizione con i diritti naturali. Si tratta di diritti che non sono altro che mezzi senza i quali il fine imposto dalla natura alla vita umana, la felicità, rimarrebbe inaccessibile o seriamente compromesso. Il primo di questi diritti umani è quello all’integrità della persona, al suo corpo e alla sua anima, o, più specificamente, alla sua vita, al suo mantenimento, alla sua conservazione, al suo sviluppo, come anche alle attività vitali strettamente umane. È da questo diritto primordiale che fluiscono i diritti che promuovono la vita e le sue attività, nonché i diritti per l’acquisizione di ciò che è indispensabile al fiorire della vita stessa. Alcuni diritti garantiscono ciò che già abbiamo (diritto alla vita, alla proprietà e al suo pacifico godimento); alcuni consentono di agire (diritto alla ricerca della felicità); altri ancora fanno sì che non si subiscano soprusi in determinate circostanze (diritto a non essere molestati); altri, infine, obbligano le persone, ma soprattutto lo Stato, ad agire in un certo modo nei nostri confronti (diritto alla formazione scolastica). Inoltre, alcuni di questi diritti impongono obblighi o doveri agli individui o alla società.

Designare il feto come soggetto di certi diritti naturali sarebbe quindi come affermare che qualcosa gli è dovuto per sua natura: circostanza che fa sorgere la domanda su cosa sia esattamente la natura della quale si discorre. È rispondendo a questa domanda che si può cercare di giustificare, ove applicabile, quanto spetti al feto e a chi spetti assicurarlo. Questo comporta di doverci concentrare sulla natura biologia del feto.

 

 3. Lo stato biologico del feto.

Pur essendo specifica della filosofia e della morale, la quistione circa la natura ed i diritti del feto, attiene anche alla biologia e alla medicina. In questa sede ci limitiamo a osservare come la ricerca biologica tenda sempre più spesso a presentare il feto come un essere umano specifico. Alcuni fatti biologici ben consolidati, insieme alle differenze filosofiche, forniscono un quadro adeguato per la determinazione di alcuni diritti fondamentali del nascituro.

Per misurare lo stato del feto come persona, l’approccio biologico insiste generalmente sulla struttura dell’organismo, considerata nelle sue varie fasi di sviluppo nonché, più recentemente, su alcune attività vitali, in specie dopo che la scienza ha mostrato di aver maturato conoscenze più estese di un tempo sul feto. In contrasto con questo approccio, la cui enfasi è sull’acquis, alcuni hanno fatto della specificità del codice genetico stesso il segno dell’esistenza di un essere umano a partire dalla formazione dello zigote. Entrambi i suddetti approcci, nonostante le informazioni importantissime che portano all’esame del problema qui in esame, dimenticano un aspetto che non dovrebbe mai essere trascurato: lo sviluppo stesso del nascituro, un processo le cui articolazioni strutturali e funzionali non possono essere comprese se non in relazione alla loro fase terminale.

In questa sede, non ci limiteremo all’analisi della struttura del feto, ma insisteremo piuttosto sul suo processo di sviluppo, in specie per quanto concerne il suo momento apicale, giacché questo processo rivela la vera situazione del feto in modo molto più eloquente di una sua istantanea, osservata al di fuori del suo contesto di sviluppo.

Tuttavia, più si studia lo sviluppo di un essere vivente, lato sensu inteso, e dell’essere umano in particolare, più appare chiaro come il tutto costituisca un solo processo che dal concepimento giunge alla morte naturale. Anche quando ci si trova innanzi ad una trasformazione sostanziale, l’osservazione con metodi scientifici non permette mai di differenziare radicalmente ciò che era immediatamente prima da ciò che viene alla luce immediatamente dopo. Per coloro che non colgono una differenza radicale tra uomo e animale, questo processo è giocoforza continuo e graduale. Per coloro che negano anche l’esistenza di un principio di attività vitale – chiamato anima o altro – questo è ancor più vero, perché se solo il corpo si sviluppa ciò che si vede nello sviluppo del corpo è tutto ciò che c’è da vedere[1].

A questo punto si rende necessaria una precisazione sul vocabolario biologico, così che non insorgano dubbi interpretativi: le parole zigota, embrione, feto, bambino non designano realtà radicalmente diverse, bensì fasi di sviluppo dello stesso essere umano, opportunamente distinte dalla biologia per i proprî fini, ma senza alcun significato o valore ontologico[2]. Infatti a partire dal concepimento, un organismo individuale ed autonomo intraprende, sotto il nome di zigote, uno sviluppo che prosegue, attraverso le fasi embrionale e fetale, fino a diventare un/a bambino/a al momento della nascita. Paradossalmente, forse, il fatto di nascere, per quanto importante possa essere come un cambiamento radicale nell’ambiente di vita circostante, non comporta un cambiamento radicale nell’essere stesso del bambino, né nel suo sviluppo. Questo cambiamento di ambiente ha indubbiamente indotto all’uso di abilità non ancora utilizzate, come la respirazione attraverso i polmoni, che si traduce anche in un cambiamento nella circolazione sanguigna. Ma è questo stesso fatto a mettere in evidenza la continuità dello sviluppo: queste capacità erano state sviluppate infatti in precedenza, proprio in vista di questo momento. Tutti questi adattamenti sono previsti nella struttura del nascituro e fanno parte del processo di sviluppo iniziato dal concepimento e proseguirà per molti altri anni, per scontrarsi molto presto, tuttavia, con un processo contrario, inscritto anch’esso nelle leggi generali della natura. Il processo di sviluppo sarà normalmente avvantaggiato i primi anni di vita, ma, a partire dai vent’anni, cederà sempre più il passo al processo di decadenza che porterà ineluttabilmente alla morte.

Lo sviluppo inizia con la fecondazione dell’ovulo materno da parte dello sperma del padre; quindi si forma lo zigote (cellula che si ottiene dunque con la fecondazione) con i suoi 46 cromosomi, a struttura genetica diversa da quella dei genitori e, ancor di più, diversa anche da qualsiasi struttura di questo tipo esistente, passata o futura negli esseri umani, ad eccezione del caso di gemelli identici. A differenza delle due cellule da cui nasce, lo zigote è immediatamente destinato dal processo del suo continuo sviluppo a divenire un giorno quello che sta già cominciando ad essere: una persona umana compiuta. Ha già la capacità o il potenziale immediato per diventare la persona che ha già iniziato ad essere. Per comprendere meglio questa capacità da un punto di vista biologico, bisogna guardare nel cuore del piccolo essere che inizia la sua vita come un’unica cellula. Il nucleo di questa cellula nasconde una macromolecola, senza dubbio la più straordinaria che ci sia: essa fornirà alla cellula le istruzioni necessarie per strutturarsi gradualmente fino a diventare compiutamente un essere umano. Questa macromolecola è il DNA (Acido Deossiribo Nucleico) ed è alla base di tutte le forme di vita sulla terra[3].

Osservando lo zigote nella sua specificità, si nota che il suo codice genetico differisce da quello di tutti gli altri organismi, in specie nella sua sintassi. Ed è secondo questo ordine che sono disposte le quattro basi che forniscono i collegamenti tra le due catene nella forma di elica di cui è composta la molecola di DNA. Le basi stesse, ovvero gli elementi puramente materiali dell’ereditarietà, si trovano essenzialmente in tutti gli esseri viventi. Sono spesso paragonati alle lettere dell’alfabeto e il codice alle parole. Non è dunque la specificità del codice genetico a distinguere una persona dalle altre dando forma alla sua individualità? La risposta non è così facile come potrebbe sembrare. Anzitutto, non bisogna cedere alla tentazione di cercare di stabilire l’individualità del feto solo sulla base della specificità del suo materiale genetico e sul DNA. Questa idea si scontra con un problema insormontabile: le molecole grazie alle quali l’organismo si struttura e si presenta in un determinato modo ne determinano in definitiva solo l’aspetto formale, e quindi quello ‘comunicabile’. Di conseguenza, nulla vieta che lo stesso piano si applichi ad un numero indefinito di individui. È nell’unità, nell’unicità, della materia in fase di sviluppo autonomo che deve essere collocata l’individualità della persona, piuttosto che nel solo aspetto formale di questa materia. È quindi nello sviluppo del feto che si manifesta più chiaramente la sua unità e specificità, tanto materiale quanto formale, anche se non mancano casi che sembrerebbero mettere seriamente in dubbio questa unità e questa specificità, come testimonia il caso dei gemelli identici.

In definitiva, l’embrione, dall’inizio della sua esistenza, si struttura secondo il piano contenuto nelle sue molecole di D.N.A. Ne consegue che è tutto l’essere a costituirsi gradualmente, non la sola molecola D.N.A. Infatti, l’embrione cresce su un lato dell’utero nella sottomucosa. È questo lo stadio in cui si forma la maggior parte degli organi interni e delle strutture esterne del corpo. La maggior parte degli organi comincia a formarsi a circa tre settimane dalla fecondazione, ossia a cinque settimane di gravidanza. A questo punto l’embrione si allunga e comincia a delinearsi una forma umana. Poco dopo, inizia a formarsi la zona che diverrà il cervello e il midollo spinale. Il cuore e i principali vasi sanguigni iniziano a svilupparsi dal sedicesimo giorno. Il cuore inizia a pompare liquidi attraverso i vasi sanguigni a partire dal ventesimo giorno e i primi globuli rossi compaiono il giorno successivo. I vasi sanguigni continuano a formarsi nell’embrione e nella placenta. Quasi tutti gli organi sono pienamente formati intorno alla decima settimana dopo la fecondazione (corrispondente a dodici settimane di gravidanza). Al termine dell’ottava settimana dopo la fecondazione (dieci settimane di gravidanza) l’embrione è considerato feto.

Dunque, ogni singola cellula e tutte le cellule insieme determinano lo sviluppo dell’essere nella sua interezza, secondo un piano contenuto essenzialmente nel materiale genetico. Questa caratteristica si riconosce anche nella progressiva specializzazione delle cellule che restano identiche nel loro materiale genetico. Inoltre, l’embrione, ancora aperto alla divisione e alla differenziazione praticabili in persone distinte, è ordinato non già per diventare più persone bensì per essere una sola persona. In effetti, stricto sensu, è predisposto, come mostra il processo stesso, a diventare una persona non già ad essere suddiviso in una pluralità di persone o esseri viventi; è semplicemente vulnerabile a un incidente dovuto a una forza esterna che è poi la causa di tale divisione. Dopo di che ciascuna delle parti risultanti riprenderà nel proprio sviluppo un orientamento volto a farne una sola persona.

 

 4.  I diritti fondamentali del feto.

Conclusivamente, si può ragionevolmente sostenere che sia all’embrione che al feto spetti il diritto corrispondente al loro di sviluppo come essere umano, ma va da sé che ciò non dà ad essi un immediato accesso a tutti i diritti umani. Bisogna distinguere, dunque, tra la vita che il feto già possiede e la maggiore perfezione di questa vita che egli raggiungerà in seguito. I diritti da rivendicare si basano su ciò che esiste già: in primo luogo si tratta di prendere atto che si è in presenza di un essere umano che, per quanto ancora imperfetto è pur sempre vivo; in secondo luogo, si tratta di considerare cosa diventerà gradualmente in modo più o meno completo: una persona dotata di ragione e di libertà di scelta o libero arbitrio che dir si voglia.

Alcuni tribunali riconoscono già diritti al feto, come il diritto alla salute e, in anticipo, il diritto alla proprietà, in modo che possa figurare come erede, nonostante gli sia preclusa la possibilità di esercitare in alcun modo tale diritto. A maggior ragione, dunque, è necessario riconoscere al feto diritti che siano oggettivamente corrispondenti al grado di perfezione raggiunto. Certi diritti, ovviamente, non possono essere rivendicati finché il soggetto di tali diritti abbia acquisito una certa perfezione: si tratta, per la precisione, dei diritti che richiedono la presenza e l’esercizio della ragione o della volontà formata. Ma i diritti fondamentali di cui stiamo parlando con riguardo al feto sono quelli che hanno riguardo a ciò di cui già dispone e che, dunque, esiste: la vita e la salute.

 

 5.  Il diritto alla vita.

Il principale diritto riconosciuto alla persona è il diritto alla vita. Questo diritto precede la costituzione della società stessa, inscritto com’è nella natura dell’individuo. Non spetta, infatti, ad un governo decidere chi ha o non ha diritto alla vita. Tranne i casi di legittima difesa a tutela del bene comune, non solo non si può esporre alla morte una vita innocente, ma nemmeno si può togliere la vita ad un colpevole. Diversamente, nessuno potrebbe vivere in sicurezza se una società si arrogasse il diritto di disporre della vita di innocenti vita che, ricordiamolo, è assolutamente intangibile e inalienabile. La vita di ciascun essere umano non può essere soggetta, dunque, al diritto del più forte. Se l’inviolabilità della vita viene ridotta a misura di convenienza del momento, l’essere umano non può salvarsi dall’arbitrarietà più assoluta, come attestato dai diversi esempi che hanno costellato il Ventesimo secolo.

Ora, come sopra anticipato, si è visto che il feto è davvero vivo ed è un essere umano a tutti gli effetti, anche se non ha ancora raggiunto il grado di perfezione finale, atteso che il suo processo di sviluppo è ancora in corso. Ma la fine di un tale processo è già inscritta nel suo inizio. Ne consegue che anche ove lo stato del feto non fosse certo, il dubbio da solo sarebbe di per sé sufficiente per considerare qualsiasi attentato alla sua vita come un crimine molto grave.

Il feto non solo ha diritto alla sua vita, ma, come riconosciuto dalla medicina, grazie agli studi di embriologia, merita anche di essere considerato come un paziente alla stregua di sua madre. In quanto tale, ha diritto alle cure che ne garantiscano la salute e il normale sviluppo. Questo diritto crea e alimenta – direttamente nella madre e indirettamente nel padre, nel medico e nella società – obblighi, doveri corrispondenti. Una sola considerazione: la parola diritto gode di buona stampa, mentre la parola dovere causa spesso un sentimento di rivolta, come se il fatto di avere dei doveri costituisse una violazione della libertà[4].

 

 6.  I diritti del feto espressione di fede religiosa e di ipotesi personali?

Si sostiene spesso che la difesa dei diritti del feto dipenda da convinzioni personali, soprattutto religiose, che sarebbe irrispettoso imporre per gli altri. È semplicemente errato porre la quistione in questi termini, perché l’argomento viene presentato come meramente sofistico. In effetti, molte persone rivendicano i diritti per il nascituro in nome delle loro credenze religiose; ma analoga considerazione si dovrebbe fare per tutto ciò che attiene alla vita e allo sviluppo della/nella nostra società. Tuttavia, un certo numero di persone non può seriamente trasformare le proprie conclusioni morali in una profonda conoscenza della natura umana. Ciò non significa in alcun modo che i requisiti morali non siano importanti e sarebbe assurdo rimuovere dal nostro apparato legislativo tutte le leggi progettate e approvate per motivazioni religiose o personali. Si cadrebbe rapidamente nell’anarchia, con alcuni pronti ad affermare il loro diritto a non rispettare i diritti altrui. Dunque, è la natura che pone in risalto i diritti del feto e il buon senso li ha percepiti validamente molto prima che la scienza potesse illuminarne a fondo i principî ultimi.

Se le Carte e le Dichiarazioni dei diritti umani non sono meri trucchi ipnotici, se sono cose diverse dalla vuota retorica, dall’ipocrisia e dalla moda del momento, se cercano punti di ancoraggio al di là del mero quadro legale e positivo offerto dalle leggi umane, arbitrarie e alienabili, si può dire che siano radicabili (e radicate) nella natura della singola persona umana con effetti estensibili a tutte le persone. A questo riguardo, il caso del feto è decisivo proprio perché mette chiaramente la ragione di fronte all’ideologia, all’emotività e, va detto, all’egoismo.

È implicito nella nozione stessa di diritto il fatto di non essere facoltativo; nel senso che è attraverso il diritto che si giunge all’accordo. Inoltre, non è una questione di diritto positivo determinare chi sia o non sia umano, compito che semmai pertiene alla filosofia naturale, se non al buon senso. Nel caso di specie non è il diritto positivo che assicura i diritti fondamentali, ma è il diritto naturale. Il diritto positivo può al più porre dei limiti, in nome dell’interesse comune, all’applicazione di determinati diritti in determinate circostanze, così come può anche aggiungerne altri ai diritti che la natura ha comunque già fissato. Ma ciò che aggiunge mantiene pur sempre il suo fondamento nel diritto naturale e deve rispondere a due criteri: conformarsi ai diritti naturali e promuovere il bene comune della società.

I dibattiti sui diritti del feto richiedono ovviamente la soluzione di un certo numero di altri problemi concreti. Non abbiamo lo spazio qui per affrontarli uno ad uno, ma la loro risposta è da ricercare nei principi di base che abbiamo sopra esposti.

 

 7.  Il diritto alla vita come principio di dignità umana.

Il diritto alla vita è inoltre parte del più ampio principio di dignità umana[5]che, come noto, occupa un posto importante tra gli strumenti di tutela dei diritti dell’uomo[6]. Se alcuni lo hanno qualificato come un diritto umano fondamentale[7], è perché le libertà e i diritti fondamentali sono espressione della vita, dell’esistenza umana, atteso che il diritto permea di sé l’intera vita dell’individuo.

La nozione di diritto alla vita non è dunque un concetto recente, bensì risalente nel tempo, tanto che si può ben dire nasca con la nascita della storia. Così, ad esempio, se si risale all’antichità greca, si comprende come il diritto alla vita abbia (avuto) una sua più concreta chiave di lettura proprio in relazione all’aborto e al suicidio. Da parte sua Michel Schooyans, filosofo, teologo, presbitero belga dell’arcidiocesi di Malines-Bruxelles, morto il 3 maggio 2022, riteneva che la pratica dell’aborto fosse strettamente intrecciata al contesto economico e sociale, ultima risorsa, spesso, della povera coppia, in ansia per la prospettiva di dover sfamare un’altra bocca[8]. Il cibo insufficiente diventa di tal guisa un motivo valido per giustificare la pratica dell’aborto? Crediamo proprio di no. Attualmente sono altri i fattori che possono essere presi in considerazione per inquadrare il fenomeno “aborto”, nella sua dimensione etica, morale, giuridica. È questo il motivo che spinge a considerare in specie la tradizione giuridica degli Stati, elemento che da sé ravviva il dibattito sulla quistione della loro diversità culturale.

È quindi d’uopo interrogarsi sulla rilevanza della nozione di “cultura” come fattore determinante del diritto. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel suo articolo 22 sostiene che «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica». Analogamente, si può osservare come nel Patto internazionale sui diritti civili e politici vengano prese in considerazione le quistioni etniche, religiose e linguistiche. Nell’articolo 27 si può leggere: «In quegli Stati, nei quali esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, gli individui appartenenti a tali minoranze non possono essere privati del diritto di avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo».

Da questo punto di vista, si può ritenere che la nozione di diritto alla vita vari a seconda dell’ambiente culturale della società al cui interno si sviluppa la vita, poiché l’intera quistione sembra risiedere nel grado di percezione del concetto di dignità umana presente in ogni società.

In alcune società africane, e non solo, la pratica della mutilazione sessuale è accettata come un tratto culturale inalienabile, sicché, in tale habitat culturale, una pratica siffatta non è considerata come una violazione di qualsivoglia diritto né, a maggior ragione, del diritto alla vita[9]. In altre culture, invece, questa pratica è considerata una violazione indiscutibile del diritto alla vita, tenuto conto dei possibili rischi che questa forma di la mutilazione sessuale può causare nella donna. Questa dimensione culturale degli Stati ha ravvivato il dibattito sulla problematica dell’universalità dei diritti umani[10]; dibattito che oggi si pone in termini di una globalizzazione degli stessi.

Si deve riconoscere che la Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, comunemente nota come Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non contiene alcuna disposizione simile a quella della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea o del Patto delle Nazioni Unit, né contiene alcun riferimento alla nozione di diversità culturale. Possiamo solo supporre che nello spirito dei “padri fondatori” della Convenzione, le considerazioni culturali non avessero un loro autonomo spazio nel campo dei diritti umani. Tuttavia, l’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo evoca il criterio dell’appartenenza ad una minoranza nazionale quando vieta le discriminazioni contro quest’ultima. Alla luce del numero di Stati parti della Convenzione europea, accresciutosi notevolmente nel corso degli anni, la Corte si è dovuta, tuttavia, confrontare con il problema dei mutamenti nelle tradizioni e nelle sensibilità da Stato a Stato. Accade così che i casi portati innanzi ai giudici di Strasburgo, sollevino quistioni relative alle specificità culturali degli Stati parti. Questa constatazione circa la natura “culturalmente sensibile” di alcuni casi ha indotto la Corte a riconoscere come agli Stati vada riconosciuto un ampio margine di discrezionalità (apprezzamento) nazionale[11].

Il margine di apprezzamento nazionale trova quindi il suo fondamento sulla mancanza di consenso degli Stati membri dell’Unione Europea su alcune quistioni, come quella del diritto alla vita del feto. Non deve sorprendere se, quantomeno metaforicamente, il diritto alla vita è presentato come un albero da cui traggono origine tutti gli altri diritti. Né può sorprendere che il diritto alla vita meriti il ​​titolo di diritto fondamentale e, come tale, benefici di una tutela assoluta. Nondimeno, quella del nascituro presenta ancora seri problemi.

Se, da un lato, è vero che la Convenzione non fornisce alcun chiarimento circa la definizione «figlio non ancora nato», dall’altro lato non si può disconoscere come detta formula abbia molti sinonimi: feto, bambino concepito, bambino semplicemente concepito, ecc.

Tuttavia, secondo uno studio della Commissione canadese per la riforma del diritto, il termine “feto” designa il prodotto dell’unione, nell’utero, di uno spermatozoo e di un ovulo umani, in una fase della vita che precede l’accesso allo stato di “persona”. Il termine abbraccia sia l’embrione, cioè il feto tra la fecondazione e la fine dell’organogenesi, e il feto che ha superato la fase embrionale[12].

Tradizionalmente chiuso sin dal tempo del diritto romano in una finzione giuridica che ne fa un essere umano giuridicamente inesistente, per mancanza di personalità giuridica, ma paradossalmente in grado di acquisire diritti, il destino del bambino concepito è oggetto, in dottrina come in giurisprudenza, di un intreccio perpetuo tra diverse e opposte categorie giuridiche[13]. Di fronte a una tale divisione e in assenza del consenso degli Stati membri dell’Unione europea, la Corte Europea per i Diritti Umani ha sempre evitato di decidere sullo status giuridico del nascituro e sul suo riconoscimento come titolare del diritto alla vita ai sensi dell’art. 2 della Convenzione, facendo ogni volta riferimento alla teoria del margine di apprezzamento nazionale[14]. Questa differenza di tradizioni giuridiche e culturali circa l’applicazione dei diritti umani solleva interrogativi su quistioni a nostro avviso fondamentali: a. possiamo considerare il nascituro come una persona che può beneficiare della tutela del diritto alla vita? b. Come le differenze culturali tra gli Stati possono influenzare l’attuazione dei diritti del nascituro? c. Possiamo considerare il margine nazionale di apprezzamento come un mezzo che permette di conciliare i diritti del nascituro e le diversità culturali? d. Questi sono i quesiti chiave che riguardano il problema della tutela del diritto alla vita del bambino non ancora nato e delle donne in gravidanza.

 

 8.  L’emergere del margine di apprezzamento nazionale a protezione del nascituro.

Il diritto alla vita del nascituro e il tema dell’aborto sono presentati come il riflesso di una cultura, di una tradizione. Ne consegue che quando si tratta di argomenti delicati, qual è quello dell’aborto, è difficile riuscire ad unificare i diritti dei vari Stati, fossero anche solo gli Stati membri dell’Unione europea, vie più considerato che a prevalere sono argomenti di natura morale o religiosa. Questa, credo, sia la ragione per cui la Corte europea dei diritti dell’uomo cerca di trovare un terreno comune attraverso la sua teoria del margine di apprezzamento nazionale. Ma cosa si intende esattamente per «margine di apprezzamento nazionale» e quali sono le sue basi nel diritto europeo sui diritti umani?

L’assenza di un denominatore comune nel sistema degli Stati contraenti è spesso evocato come obiettivo legittimo a sostegno del margine di discrezionalità nazionale. Prendiamo atto inoltre dell’assenza di un diritto convenzionale all’aborto. Dianzi ad una situazione del genere, la Corte europea dei diritti dell’uomo cede al primato dei valori morali e culturali degli Stati europei sul diritto individuale delle donne all’autodeterminazione del loro corpo[15], da qui l’interesse del rapporto tra margine di apprezzamento e pluralismo giuridico, da un lato, e margine di apprezzamento e pluralismo culturale, dall’altro.

 

 9.  Margine di apprezzamento nazionale e pluralismo giuridico.

La nozione di margine di apprezzamento, che consente il rispetto del pluralismo proprio dell’ordinamento giuridico europeo, è stata evocata per la prima volta nelle Conclusioni dei delegati della Commissione europea dei diritti umani all’udienza del 7 aprile 1961 nella causa Lawless v. Irlanda[16]in cui la Commissione aveva così riconosciuto agli Stati un “margine nazionale di apprezzamento”[17]. La Corte europea dei diritti dell’uomo ne ha seguito l’esempio nella causa Handyside v. Regno Unito[18]. In questo caso, il procedimento è stato avviato nei confronti del richiedente in quanto editore di un manuale che, rivolto agli studenti, forniva consigli, informazioni anche sulla sessualità ma che le autorità avevano qualificato come “pubblicazione oscena”. La procedura avevano comportato il sequestro e la confisca del libro nonché la condanna del ricorrente ad una multa. La Corte è stata chiamata a stabilire se, come sostenuto dal governo, queste misure fossero da considerarsi necessarie in una società democratica, perché poste a tutela della morale, quale scopo legittimo. Questo passaggio della sentenza Handyside dimostra, senza dubbio, il legame esistente tra il margine di apprezzamento e la diversità culturale o giuridica. Questo legame tra la natura culturale di alcune quistioni e il margine di apprezzamento è stato riaffermato anche nella causa Wingrove v. UK, nella quale il ricorrente ha lamentato che la distribuzione del suo film video fosse stato vietato dalle autorità britanniche in ragione del suo carattere considerato blasfemo nei confronti dei simboli cristiani.

Esaminata la liceità del ricorso riguardo la Convenzione circa l’ingerenza subita dal ricorrente nella sua libertà di espressione, la Corte ha affermato che «une grande marge d’appréciation est généralement laissée aux États contractants lorsqu’ils réglementent la liberté d’expression sur des questions susceptibles d’offenser des convictions intimes, dans le domaine de la morale et, spécialement de la religion »[19] La Corte si presenta solo come un organismo sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di tutela dei diritti umani, una sussidiarietà che spiega bene il fondamento del margine di apprezzamento nazionale, che è anzitutto da considerarsi come «l’expression d’une nécessité fonctionnelle» secondo il professor Frédéric Sudre[20]. A suo avviso, quindi, sullo Stato ricade una presunzione di conoscenza del diritto e dei fatti relativamente all’esercizio della sovranità sul suo territorio. La Corte ha pertanto ritenuto che le autorità nazionali si trovino in una posizione migliore per decidere circa il modo in cui soddisfare i requisiti della Convenzione[21], atteso che lo Stato è in una posizione migliore per conoscere e giudicare gli eventi che si svolgono nel suo territorio. Ma il margine di apprezzamento è anche la traduzione di un requisito ideologico: il pluralismo opera all’interno della comunità degli Stati europei[22]. In questo senso, la Corte ritiene di dover tenere in giusta considerazione la diversità europea e le culture giuridiche degli Stati[23]. La Convenzione non impone alcuna uniformità assoluta, in quanto considera impossibile ricavare dal diritto interno dei vari Stati contraenti «une notion européenne uniforme de la morale»[24] o un «approche européenne uniforme » dans le domaine de la réglementation du recours à la fécondation in vitro»[25] . In molti casi, ha ammesso che, date le circostanze, le caratteristiche culturali proprie dello Stato, di una regione o di una comunità, fossero un elemento rilevante da prendere in considerazione al fine di verificare l’esistenza di una violazione della Convenzione.

 

 10.  Margine di apprezzamento nazionale e pluralismo culturale.

La crescente diversità culturale che caratterizza le società europee contemporanee e le tensioni che genera suscitano vivaci dibattiti[26]. Da un punto di vista etico, questo carattere multiculturale della società europea invita alla tolleranza reciproca, sia dei popoli sia dei leader politici degli Stati europei che hanno scelto di unire i loro destini garantendo il rispetto reciproco delle loro forti tradizioni storiche[27]. Da un punto di vista giuridico, questo multiculturalismo trova il suo fondamento sull’articolo 6 del Trattato di Amsterdam[28](ex articolo F del Trattato di Maastricht) che fa derivare i diritti fondamentali, riconosciuti a livello di Unione, in particolare dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che proclama, inoltre, che «l’union respecte l’identité nationale de ses États membres»[29]. Così, non appena lo Stato è accusato di aver violato un diritto tutelato, cerca di giustificare tale violazione invocando la tutela della cultura nazionale o la morale tradizionale. È questo il caso del diritto alla vita del nascituro che alimenta dibattiti infiniti e del problema dell’aborto, tema che gli Stati tendono a ricondurre alla dimensione culturale. La querelle non lascia alcun dubbio sul fatto che il diritto alla vita vari a seconda dell’ambiente culturale in cui la vita stessa si sviluppa. In questo caso, si pone però il problema di come conciliare le specificità culturali, a volte contraddittorie, degli Stati.

La Corte europea riconosce alle autorità nazionali un ampio margine di apprezzamento su alcune quistioni[30]. Può trattarsi anche di un ridotto margine di discrezionalità[31]e, in questo caso, la Corte tenderà a circoscrivere il margine d’apprezzamento in ragione dell’entità del problema. Così, la Corte, nella sentenza Connors, ha dichiarato che l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo garantisce agli individui la libertà di scegliere di preservare la propria identità culturale, che si esprime nella ricerca di un certo modo di vivere richiedendo semplicemente allo Stato di astenersi da qualsiasi ingerenza nella sfera privata e familiare[32]. Il pluralismo è al centro della giurisprudenza della Corte europea diritti umani e riflette la diversità delle culture negli Stati parti. Con riferimento al margine di discrezionalità degli Stati, la Corte riconosce e rispetta tale diversità e, di riflesso, spetta allo Stato assicurare un quadro giuridico che garantisca a tutti la protezione dei loro diritti fondamentali.

Il diritto alla vita del nascituro e il diritto alla vita delle donne incinte sono aspetti in perenne conflitto, conseguenza della diversità culturale interna degli Stati parti della Convenzione europea, al cui interno ci sono divergenze, tensioni, opposizioni sulla questione dell’aborto e su quella dello status giuridico del nascituro. La Corte ha ritenuto di non decidere, ritenendo piuttosto necessario rinviare la quistione al diritto interno degli Stati in modo che questi possano disciplinarla secondo le rispettive tradizioni culturali. La nozione di margine di apprezzamento consente quindi di comprendere meglio l’incertezza che circonda il tema dell’aborto in un mondo che si vuole sempre più multiculturale.

 

 11.  I fondamenti del margine di apprezzamento nazionale.

La Corte ha più volte sottolineato come la Convenzione europea sia uno ‘strumento vivo’, da interpretare alla luce delle attuali condizioni di vita[33]. Se ne ricava che, nel quadro di un’interpretazione evolutiva della Convenzione, il punto di partenza del diritto alla vita è da individuarsi nel margine di apprezzamento degli Stati, come riconosciuto dalla Corte in questo campo. Le ragioni che la spingono a un tale ragionamento sono di due tipi: da un lato, la maggior parte degli Stati contraenti non ha trovato una giusta soluzione da dare al problema della tutela del diritto alla vita del nascituro, attesa la mancanza di una definizione scientifica e giuridica delle nozioni di vita e di diritto alla vita e, dall’altro, non esiste alcun consenso comune circa la natura e lo status giuridico del nascituro.

Questa situazione ha dato luogo ad accesi dibattiti sul tema del fondamento giuridico dell’aborto e sui beneficiari del diritto alla vita, discussioni che oppongono i difensori dei diritti del nascituro a coloro che invece militano a sostegno dei diritti degli esseri viventi: una opposta diversità di vedute che rende difficile dare per certa la qualità di persona al feto, nonostante le evidenze scientifiche indicate nella prima parte del presente lavoro.

 

 12.  La mancanza di definizione delle nozioni di vita diritto alla vita nel diritto europeo.

L’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo contiene due elementi fondamentali: la prima frase del comma 1 enuncia l’obbligo generale di tutelare per legge il diritto alla vita; la seconda frase vieta di dare intenzionalmente la morte. Questo divieto è limitato dalle eccezioni menzionate nella seconda frase stessa, laddove il comma 2 elenca, invece, le limitazioni al diritto alla vita. La disposizione, tuttavia, e questa è una grave lacuna, non definisce il termine “vita” o l’espressione “diritto alla vita”. Di fronte a tale silenzio, la Corte europea ha deciso di non pronunciarsi sulla definizione di questi termini e preferendo rinviare agli Stati la responsabilità di decidere sulla quistione.

Dunque, se biologi, genetisti o medici sembrano incapaci di accordarsi su come definire la vita, e non sono nemmeno in grado di concordare sui criteri per distinguere tra materia vivente e inerte, se coloro che hanno la adeguata formazione in discipline mediche, filosofiche e teologiche non sono in grado di raggiungere un accordo sul momento in cui ha inizio la vita, lo sfortunato giurista non può pretendere, né di dare una definizione indiscutibile di cosa debba intendersi per “vita”, né di determinare con certezza quando inizia questa vita[34]. Affermando il diritto alla vita di ogni individuo, gli strumenti internazionali per la tutela del diritto alla vita sembrano voler sostenere che solo la singola persona possa godere del diritto alla vita.

La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia sostiene la protezione dell’essere umano nella sua persona fin dall’inizio della vita. Sulla stessa linea, la Convenzione americana sui diritti dell’uomo che nel suo articolo 4 tutela il diritto alla vita “in generale a partire dal concepimento”. Si può dedurre da questi due testi che la vita sia intesa come la durata che separa il concepimento dalla morte, sicché, da questo punto di vista, non è più la nascita a definire il punto di partenza dell’esistenza di una persona, bensì il suo concepimento.

Nondimeno, è dato rilevare come l’assenza in questi testi di una definizione della parola vita generi confusione intorno alla nozione stessa del concetto di persona. Poiché nessun testo giuridico definisce le espressioni “persona” e “vita”, in questa sede intendiamo ispirarci alla dottrina che tenta di fornire una definizione di queste due parole. Così, Hannah Arendt scava nell’Antichità greca per ricordare che il tema della vita era all’epoca declinato in due modi: primo, la vita nel senso di Zoé, a fondamento della parola zoologia, è quella che anima e caratterizza tutti gli esseri viventi nell’essere vivi. Poi, c’è la vita nel senso di Bios, da cui biografia, che designa la vita nella sua dimensione etico-culturale, ossia l’esistenza come genere o stile di vita[35]. Tuttavia, questa distinzione storica tracciata dalla Arendt ancora non fornisce una chiara definizione della parola vita. Presenta semplicemente la vita prima come zoologia, comunemente chiamata biologia, e poi come biografia, ma è silente per quanto riguarda la quistione dei beneficiari della vita.

Il Dizionario francese di medicina e biologia definisce la vita come «l’ensemble des phénomènes énergétiques que manifestent certaines protéines, en particulier celui de s’organiser sous la forme d’une cellule ou d’un groupe de cellules, constituant un organisme capable de se multiplier et de se perpétuer ainsi indéfiniment, si les conditions ambiantes lui restent favorables»[36]. Ebbene, ci sembra che questa definizione parli solo di formazione della vita, anche se tenta di descrivere in prospettiva le condizioni che possono promuovere il diritto alla vita.

Nella sua decisione X v. Regno Unito, la Commissione europea ha esaminato il ricorso di un marito che si è lamentato per l’autorizzazione concessa alla moglie ad un aborto terapeutico così da decidere finalmente sul termine vita e, in particolare, sull’inizio della vita, tema sul quale esistono profonde divergenze di opinione[37]. Alcuni ritengono che l’inizio della vita decorra dal concepimento, l’embrione sarebbe dunque vita a tutti gli effetti, altri enfatizzare il momento in cui diviene feto, o in quello in cui il feto diventa vitale, altri ancora ritengono che la vita decorra dal momento della nascita.

Ciò detto, si ricordi che la Convenzione europea dedica il suo articolo 2 al diritto alla vita e al comma 1 sancisce che il diritto di ogni persona alla vita è tutelato dalla legge. Ma cosa si intende esattamente per “diritto alla vita”? Ebbene, sul punto, la Convenzione non fornisce alcuna definizione.

Di fronte al silenzio degli strumenti di tutela dei diritti umani rispetto alla definizione di cui qui si tratta, la nozione generale di diritto alla vita è studiata dalla dottrina più erudita[38] che ha fatto scorrere non poco inchiostro giurisprudenziale[39]. Per Bertrand Mathieu, il diritto alla vita è prima di tutto il diritto a non essere privati della vita, cui si aggiunge il divieto di commettere omicidio e il divieto della pena di morte. Dopo aver dimostrato che il legame tra il diritto alla vita e il diritto di vivere rafforzano il rapporto tra diritti civili e politici e diritti socio-economici, Sylvanus Okechukwu formula una definizione del concetto di diritto alla vita che tiene conto del carattere arbitrario della privazione della vita. Nel suo libro The Right to Life and The Right to Live, si legge: «The right to life is understood as the right not to be killed and also to be protected from arbitrary execution or murder»[40]. Possiamo così definire il diritto alla vita non solo come diritto a non essere uccisi, ma anche e soprattutto come diritto alla protezione contro qualsiasi arbitraria privazione della vita. Dalla stessa prospettiva, ma in un certo senso più semplice, Pierre d’Argent definisce dapprima il diritto alla vita come « le droit de chaque personne de ne pas être arbitrairement privée de la vie par les autorités publiques» prima di sostenere che «il rispetto del diritto alla vita è un obbligo erga omnes»[41].

Jean-Philippe Pierron ha proposto un duplice significato dell’espressione “il diritto alla vita”: «le droit à la vie»: une signification minimale qui définit le droit à la vie comme un droit pour les vivants et un droit appliqué aux vivants; une signification maximale qui repose sur des considérations ontologiques déterminant l’essence même de l’homme»[42].

Il primo significato ravviva i dibattiti e alimenta le discussioni sulla quistione dei beneficiari del diritto alla vita. Quanto al secondo significato, solleva una domanda che possiamo riassumere come segue: «Quando inizia e finisce la vita umana?». Ad essere in discussione è anche l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre per il quale «l’esistenza precede l’essenza»[43]. Con questa formula, Sartre esprime la sua convinzione fondamentale che l’uomo esiste prima e viene definito solo in seguito. La filosofia sartriana è indice della libertà dell’essere umano, ma non ne determina l’essenza. Nella misura in cui il diritto tutela ogni persona contro le violazioni alla vita, ci si può quindi chiedere perché l’esistenza dovrebbe essere un criterio determinante di protezione della vita. Come ben evidenziato da Jean-Philippe Pierron, l’approccio essenzialista della definizione di diritto alla vita ha avuto due interpretazioni contrarie: in primo luogo, un’interpretazione trascendente, di tipo spiritualista, che assume la vita come un valore trascendente e assoluto che non può essere compromesso. In questo caso, il diritto alla vita è connotato da una tradizione metafisica e teologica per la quale la vita è sacra e secondo la quale Dio solo è padrone della vita. Poi c’è un’interpretazione immanente di tipo materialista, in cui l’essenzialismo si basa su una riduzione della vita al vivere biologico. In queste due definizioni si colgono una dimensione organica ed una metafisica, in cui la dimensione materiale e quella spirituale son contrapposte l’una all’altra. Il diritto alla vita viene allora considerato come diritto primario dell’uomo, tanto che, in sua assenza, non avrebbe senso parlare di altri diritti relativi al rispetto della dignità umana[44]. Nondimeno, la Corte europea, nella sua prassi giurisprudenziale, rifiuta di pronunciarsi sulla sua applicazione al feto. Essa ritiene che il diritto alla vita, di cui all’articolo 2 della Convenzione, non possa essere interpretato come applicabile al feto, perché avrebbe riguardo solo alla vita di persone già nate, vive, e non sarebbe né coerente né giustificabile dissociare questo diritto dal soggetto a cui si riferisce, ossia la persona[45]. Posta così la quistione, è comprensibile che i redattori della Convenzione non abbiano voluto estendere la portata del diritto alla vita al feto, contrariamente a quanto accade nel diritto interno degli Stati parti. È però singolare che la Corte che non si è mai voluta esprimere né sul concetto di diritto alla vita né sullo status giuridico del nascituro sostenga poi che la portata del diritto alla vita non sia applicabile al feto. A meno che, così facendo, e in modo indiretto, abbia inteso formulare una sua idea sul concetto qui in discussione. Ma di un tanto non c’è traccia nel suo percorso giurisprudenziale.

Non solo, la Corte così silente improvvisamente comincia a parlare e afferma che il riconoscimento di un diritto alla vita del feto ai sensi dell’articolo 2, non solo porrebbe sullo stesso piano la vita della madre e quella del feto, ma che privilegiare la salvaguardia di quest’ultimo o bilanciandola con il rischio grave, immediato e insormontabile per la vita della madre, equivarrebbe a un regresso storico e sociale nonché a una messa in discussione della legislazione in vigore in molti Stati parti della Convenzione[46]. Questa esitazione della Corte risulta dal fatto che non vi è consenso all’interno degli Stati membri sulla definizione scientifica e giuridica di cosa debba intendersi con la formula inizio della vita. Questa assenza di un denominatore comune agli ordinamenti giuridici degli Stati contraenti, è sovente evocata come obiettivo legittimo a sostegno della teoria del margine nazionale di discrezionalità.

 

 13.  La mancanza di consenso europeo sulla natura e sullo stato giuridico del nascituro.

Il tema dell’aborto è una questione oggi rovesciata dal progresso medico[47]e quindi condivide le opinioni sui diritti delle donne in gravidanza e sui diritti del feto, il che dà origine a conflitti di diritti e valori, sui quali sembra difficile, se non impossibile, ottenere un consenso sociale[48].

Le leggi in vigore negli Stati membri che hanno riguardo all’inizio della vita umana e al concetto di personalità umana, differiscono notevolmente le une dalle altre. Ciò significa che non c’è cosa debba intendersi per inizio della vita[49]. Circa poi la quistione se il feto possa essere considerato come persona che può beneficiare della tutela del diritto alla vita, tre sono le tesi che si scontrano: la prima sostiene che il nascituro è una persona giuridica dotata della stessa protezione giuridica delle persone nate vive e viventi[50]. La seconda, al contrario, tende a dimostrare come il nascituro non sia una persona e non abbia diritto ad alcun riconoscimento o protezione giuridica. La terza, più conciliante, difende l’idea che il nascituro sia effettivamente una persona giuridica, ma dotata di diritti affievoliti. Con quest’ultima tesi si mira a dimostrare che anche ove il nascituro fosse considerato alla stregua di una persona, non potrebbe beneficiare degli stessi diritti della madre che lo porta in grembo. Un’altra tesi ancora è quella di Ronald Dworkin[51]. Egli distingue, da un lato, il diritto della donna di disporre del proprio corpo e, dall’altro, il diritto del bambino concepito, riguardo al quale egli nota come quest’ultimo riceva, in molti ordinamenti giuridici, una protezione normativa meno certa rispetto alla prima. Infine, suggerisce di considerare la quistione dell’aborto come un’idea di valore intrinseco e non come idea riferita ai diritti e agli interessi del feto. Così facendo, tuttavia, questo autore sottolineando l’interesse della donna, rende difficile il riconoscimento della qualità di persona al feto. Questa discrepanza offusca la definizione di natura giuridica e di status del feto, causando in tal modo incertezza sullo stesso fondamento giuridico dell’aborto. Ad esempio, secondo un principio generale ormai acquisito della common law, nel Regno Unito la personalità giuridica si acquisisce al momento della nascita. Prima di questa fase, il nascituro non ha alcuna personalità giuridica separata da quella della gestante. Tuttavia, nonostante questa mancanza di personalità giuridica, gli interessi del nascituro sono spesso tutelati mentre è ancora nel grembo di sua madre, anche se non è possibile farli valere innanzi al giudice come diritti sanciti finché non vi sia stata acquisizione della personalità giuridica al momento della nascita[52].

Nel diritto civile, ciò significa non solo che, in particolare prima della nascita, il nascituro non ha, ad esempio, la capacità di avviare un’azione per danni o di ricorrere giurisdizionalmente in ragione di un pregiudizio subito nell’utero, ma comporta anche che nessun ricorso possa essere avanzato in suo nome[53].

Nel diritto penale è ormai assodato che il nascituro non è trattato come persona giuridica ai fini delle norme di diritto comune relative all’omicidio colposo o a quello volontario[54].

A parte la Convenzione americana sui diritti umani[55]che stabilisce che il diritto alla vita deve essere tutelato «in generale a partire dal concepimento», gli altri testi internazionali fanno riferimento ad un diritto che tutela l’essere vivente e non il nascituro[56]. Dalla lettura del paragrafo 1 dell’articolo 4 della Convenzione americana, si apprende che il bambino semplicemente concepito acquisisce automaticamente una personalità giuridica che è fonte di diritto, e in particolare il diritto alla vita. Sebbene la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo[57] faccia prevalere il criterio della vita spirituale su quello della vita biologica al fine di determinare cosa debba intendersi con l’espressione “essere umano”[58], sia la Convenzione europea sia la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina[59] non danno alcuna definizione del termine “ogni persona”. In particolare, la Convenzione di Oviedo utilizza, al comma 19 del suo articolo 1, l’espressione “essere umano” sostenendo la necessità di proteggere l’essere umano nella sua dignità e identità e precisando che è principio generalmente accettato quello secondo cui la dignità umana e l’identità della specie devono essere rispettati fin dall’inizio della vita.

Quanto al Protocollo addizionale alla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina che vietano la clonazione di esseri umani (12 gennaio 1998), il suo articolo 1 chiarisce che l’espressione “essere umano” geneticamente identico ad altro essere umano sta ad indicare che un essere umano ha in comune con un altro essere umano geni nucleari[60]. In assenza di unanimità fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa circa la definizione dei termini sopra ricordati, si è convenuto che spetti al diritto interno dei singoli Stati provvedere alle pertinenti specifiche circa l’applicazione della Convenzione[61].

Il dibattito sulla situazione giuridica del nascituro, di cui ancora non sappiamo se sia una persona o una cosa, è tutt’altro che concluso. In assenza di un consenso europeo sul suo status giuridico, la Corte si rifiuta di dire espressamente se il diritto alla vita sia applicabile al nascituro, lasciando la quistione alla discrezionalità degli Stati[62]. Questo rinvio al diritto interno fa sì che la Corte europea dei diritti dell’uomo ritenga, sull’esempio del diritto britannico, che l’embrione non possa rivendicare il diritto alla vita[63]. Di tal guisa, la Corte si allinea alla posizione della Commissione Europea per i diritti umani che, peraltro, già nel 1980 nel caso Patton c. Regno Unito aveva affermato che «le droit de toute personne à la vie ne semblait s’appliquer qu’à la naissance»[64]. Il caso era quello di un marito che aveva visto rifiutata la sua richiesta di ottenere un’ingiunzione tesa ad impedire alla moglie incinta di porre fine alla sua gravidanza. La Commissione Europea dei Diritti Umani ha così ricordato che il diritto alla vita del feto non prevale sugli interessi della donna incinta perché l’uso dell’espressione “qualsiasi persona”, di cui all’articolo 2 della Convenzione Europea e presente in altre disposizioni della citata Convenzione, tendeva a stabilire la tesi della inapplicabilità al feto. La Commissione ha di tal guisa precisato che: «La vie du fœtus est intimement liée à la vie de la femme qui le porte et ne saurait être considérée isolément. Si l’on déclarait que la portée de l’article 2 s’étend au fœtus et que la protection accordée par cet article devait, en l’absence de limitation expresse, être considérée comme absolue, il faudrait en déduire qu’un avortement est interdit, même lorsque la poursuite de la grossesse mettrait gravement en danger la vie de la future mère. Cela signifierait que « la vie à naître » du fœtus serait considérée comme plus précieuse que celle de la femme enceinte»[65].

La Commissione ha anche osservato in X c. Regno Unito che l’espressione “qualsiasi persona” contenuta nell’articolo 2, ma anche negli articoli 5, 6, da 8 a 11 e 13 della Convenzione, sarebbe utilizzata in modo tale da essere applicata solo dopo la nascita[66]. A suo parere, dunque, il nascituro non sarebbe una persona in vista dell’uso che generalmente si fa di questo termine e del contesto in cui è usato nella disposizione convenzionale[67]. La Commissione pur ponendo sul piatto della bilancia due diritti: il diritto alla vita del nascituro, da un lato, e il diritto alla vita o diritto all’autonomia e allo sviluppo della donna incinta dall’altro, alla fine, però, conclude che il primo diritto pesi meno del secondo. Diversamente dalla Commissione, la Corte individua quanto meno nell’appartenenza del feto alla specie umana l’unico denominatore comune tra il diritto alla vita e il nascituro. Secondo la Corte, sono dunque la potenzialità e la capacità del feto di diventare una persona che devono essere protette in nome della dignità umana, senza farne pertanto una persona, a tutti gli effetti, che avrebbe un diritto alla vita ai sensi dell’articolo 2[68]. La Corte approfondisce quindi il concetto di dignità umana nel tentativo di fornire una definizione di “feto”, anche se poi non gli riconosce alcun diritto come persona.

Nella sentenza Vo v. Francia, la questione posta al tribunale francese può essere così riassunta: di reato di omicidio colposo o di attentato involontario alla vita si può parlare soltanto quando l’attentato alla vita riguarda una persona umana? In altre parole, a quale stadio di maturità l’embrione può essere considerato una persona umana?

Il ricorrente, che si è lamentato del rifiuto delle autorità di considerare l’omicidio colposo come attentato alla vita del bambino ancora nel grembo materno, afferma che l’inizio della vita ha un senso e una definizione universali, e che il termine “persona” utilizzato nell’articolo 2 della Convenzione è da intendersi nel senso di essere umanolato sensu, e non nel senso di persona fisica dotata degli attributi della personalità giuridica.

Il tribunale ha poi concluso che non è stato definito il reato di omicidio colposo o di attentato alla vita di un feto di 20-21 settimane, perché il feto è vitale a partire dal sesto mese. Dunque, considerare vitale un feto di 20-21 settimane non sarebbe un’ipotesi praticabile, perché non si tratterebbe di una persona umana[69].

Se ne deduce che non c’è norma giuridica che definisca non solo quale sia la situazione giuridica del nascituro, sin dalla sua formazione e dal suo graduale sviluppo, ma ancor meno quella dell’embrione, il che ha dato luogo a inevitabili e talvolta strumentali polemiche sul riconoscimento del nascituro come titolare e beneficiario del diritto alla vita.

La nozione di “vita” non è stata esplicitamente definita in nessun testo giuridico sulla protezione dei diritti umani. Proprio come nel diritto internazionale, il titolare del diritto alla vita (nascituro) presenta aspetti molto diversi a seconda della legislazione interna degli Stati. Alcune legislazioni parlano di “uomo”, di “persona”[70], di “esseri umani”. Altre parlano di “ogni individuo”, “ogni cittadino”, di “tutti”[71]. Altre, per indicare i titolari del diritto alla vita, parlano semplicemente di “tutti”. In termini giuridici, questa diversità nella individuazione dei titolari di tale diritto non è favorisce l’adozione di una definizione comune della parola “vita”.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 afferma che gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali in diritto. L’interpretazione di questa affermazione suggerisce che l’essere umano diventa soggetto giuridico nel momento stesso della sua nascita. È quindi comprensibile che i redattori della Dichiarazione abbiano deciso di riservare la tutela dei diritti fondamentali solo al bambino nato. Questa interpretazione si scontra con l’argomento dell’adagio latino infans conceptus pro nato abetur quoties de commodis ejus agitur secondo cui al nascituro vanno riconosciuti determinati diritti di natura meramente patrimoniali sotto condizione sospensiva che egli sia nato vivo [72].

È con la Convenzione sui diritti dell’uomo e della biomedicina, che riemerge il dibattito sulla natura giuridica e lo status del nascituro. Sfortunatamente, non ha portato niente di nuovo nella comunità giuridica, dal momento che questa Convenzione – silente sulla definizione di “essere umano” – rinvia la quistione all’ordinamento giuridico nazionale.

 

 14.  L’impatto del margine di apprezzamento nazionale sulla tutela del diritto alla vita del nascituro.

Se la quistione circa l’identificazione dei beneficiari del diritto alla vita resta sempre problematica, quella della situazione giuridica del bambino concepito non gode dell’unanimità degli Stati e continua ancora a dividere la giurisprudenza facendosi beffe della dottrina[73]. Ora, anche per le ragioni più sopra esposte, soprattutto di carattere scientifico, indipendentemente dallo status morale o giuridico a lui riconosciuto avuto con ciò riguardo alle culture diverse e ai diversi approcci etici, il nascituro merita la protezione della legge. Va da sé che fare sì che tale protezione possa concretamente esistere e produrre i suoi effetti, deve giocoforza adattarsi al contesto socio-culturale e giuridico dello Stato in quistione (A). Ciò rinvia inevitabilmente aldiritto internodello Stato, alla teoria del margine di apprezzamento nazionale ossia alle specificità culturali degli Stati. Va comunque precisato che questo margine discrezionalità concesso agli Stati non è illimitato, atteso che la Corte ne tiene monitorati i comportamenti (B).

  1. Il “margine di apprezzamento” è una teoria, sviluppata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sua prassi giurisprudenziale, che porta a riconoscere che gli Stati, in determinati contesti, hanno uno spettro più o meno ampio, comunque significativo, per valutare il contenuto dei propri obblighi secondo la Convenzione. Trattasi, se non di un “margine di discrezionalità” (1), quanto meno di un “potere discrezionale” (2).
  2. Un margine di discrezionalità è da intendersi come un potere che si esercita secondo la tradizione giuridica o la cultura di uno Stato. La Corte ha anche ricordato, nella sua sentenza Handysid, che il margine nazionale di apprezzamento si basava innanzitutto sul carattere sussidiario del meccanismo di controllo previsto dalla Convenzione rispetto ai sistemi nazionali di garanzia[74]. È nel caso Linguistique belge[75]che la Corte ha chiarito quali fossero i fondamenti della sua dottrina, sottolineando come essa «ne saurait se substituer aux autorités nationales compétentes, faute de quoi elle perdrait de vue le caractère subsidiaire du mécanisme international de garantie collective instauré par la Convention»[76].

Questo carattere sussidiario deriva dal principio della doppia competenza giurisdizionale[77] e si evince da tre disposizioni della Convenzione Europea: l’articolo 1, ai sensi del quale le parti contraenti riconoscono a qualsiasi persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti nella Convenzione; l’articolo 13, in base al quale qualsiasi persona i cui diritti e libertà riconosciuti dalla Convenzione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi ad un’autorità nazionale e l’articolo 35, secondo il quale la Corte può essere adita solo dopo l’esaurimento dei ricorsi interni[78]. Pertanto, le autorità nazionali si trovano, in linea principio, in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale per pronunciarsi sul contenuto preciso di alcune quistioni relative alla sfera morale o religiosa.

Le tradizioni locali possono persino indurre la Corte a sostenere che una isolata normativa nazionale, alla luce della legislazione di altri Stati parti, non violi la Convenzione quando interessa un ambito territoriale strettamente legato alle tradizioni culturali e storiche di ogni società[79]. Ed è appunto sotto questo profilo che i giudici nazionali hanno affrontato la quistione dello status giuridico della persona nel contesto dell’aborto. Infatti, le Corti costituzionali austriaca e olandese hanno ritenuto che l’articolo 2 non dovesse intendersi come posto a tutela del nascituro. Da parte sua, ancora più esplicito è risultato il Consiglio costituzionale francese secondo cui non ci sarebbe contrasto tra la normativa in materia di interruzione volontaria di gravidanza e la protezione riservata dal diritto costituzionale alla salute del bambino.

Per quanto riguarda la Corte Costituzionale italiana questa è stata chiamata a decidere il 20 giugno 2012 in ordine alla quistione di legittimità costituzionale sollevata d’ufficio dal Giudice tutelare di Spoleto[80]. Nel caso di specie il Giudice era stato richiesto di autorizzare una ragazza minorenne ad abortire volontariamente senza consultare i genitori, così come previsto dall’art. 12 della legge che prevede detta ipotesi «nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela … il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli (dal consultorio), può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza». Il Giudice ha eccepito che l’art. 4 della legge italiana sull’aborto n. 194/1978, che consente l’aborto volontario nei primi novanta giorni della gravidanza, contrasta con gli articoli 2, 32, 11 e 117 della Carta Costituzionale. Il ragionamento del Giudice di Spoleto all’uopo adito si collega all’adesione dell’Italia all’Unione Europea, adesione che per il nostro Paese come per gli altri Stati Parti comporta l’obbligo dell’applicazione delle norme comunitarie/europee e la contestuale disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con queste ultime o, comunque, deve sollevare la quistione di costituzionalità delle norme nazionali per contrasto con quelle dell’Unione: il riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione si giustifica con questa impostazione. Cosa rende l’art. 4 della legge 194 confliggente con la normativa europea? Gli è che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, decidendo in punto di brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche, ha fornito una definizione vincolante del concetto di “embrione umano” là dove afferma che per embrione umano deve intendersi «qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione». Non solo: la decisione della Corte di Giustizia esclude che un’invenzione biotecnologica possa essere brevettata se per la sua attuazione è richiesta la distruzione di embrioni umani. Per il Giudice di Spoleto ciò equivale non solo a sostenere «il disvalore assoluto in ogni caso, ai sensi dei principi fondanti il diritto dell’Unione Europea, della perdita dell’embrione umano per consapevole intervento dell’uomo, se anche effettuato invocando esigenze di progresso scientifico», ma anche ad affermare che l’embrione umano esiste giuridicamente come soggetto e che, come tale, è meritevole di tutela assoluta. Di qui i dubbi di costituzionalità della norma dell’art. 4 della legge 194, posto che esso contrasterebbe sia con l’affermazione dei diritti inviolabili dell’Uomo (di qui il richiamo all’art. 2 della Costituzione), giacché la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sostenendo esplicitamente che l’embrione è “uomo” – per quanto potenziale, in divenire – afferma che anche a lui deve essere riconosciuto il diritto fondamentale alla integrità e dignità (e, quindi, il diritto alla vita), sia con il diritto costituzionale alla salute (di qui il richiamo all’art. 32 della Costituzione): trattandosi di un fondamentale diritto dell’individuo ed essendo l’embrione umano un “individuo”, termine che il Giudice di Spoleto definisce come: «quel centro di imputazione soggettiva di relazioni giuridicamente rilevanti che sia diverso, sotto il profilo ontologico, dalle cose inanimate e, sotto il profilo di genere e di 2 specie, dai vegetali e dagli animali» e che, per ciò stesso, ha il diritto alla salute, che è leso dall’aborto volontario. Il percorso argomentativo era stato ben motivato, ma la nostra Corte Costituzionale ha dichiarato «la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), sollevata, in riferimento agli articoli 2, 32, primo comma, 11 e 117 della Costituzione, dal Giudice tutelare del Tribunale ordinario di Spoleto, con l’ordinanza in epigrafe»[81], evitando “pilatescamente” di dire che l’aborto libero e gratuito nei primi novanta giorni contrasta con i diritti inviolabili dell’uomo, perché quegli embrioni possono essere uccisi senza che sussista alcun pericolo per la salute della madre derivante dalla gravidanza. Ancora una volta, come sua consolidata consuetudine, la nostra Corte Costituzionale ha deciso di non decidere.

Se l’ordinamento giuridico interno di alcuni Stati è contrario all’aborto per salvare la vita del nascituro, nondimeno è da rilevare che quella di altri Stati prevede l’aborto al fine di tutelare gli interessi della madre. Così, la costituzione irlandese[82] del 1992 attribuiva maggior valore alla vita del nascituro. Il suo articolo 40 riconosceva infatti il diritto alla vita del nascituro avuto con ciò riguardo al pari diritto alla vita della madre. Prescriveva poi che lo Stato dovesse impegnarsi, nella misura più ampia possibile, a rispettare e difendere questo diritto nella sua legislazione. Il costituente irlandese aveva rifiutato, nel 1992, l’aborto in caso di pericolo per la vita della madre. Nel 2018, tutto è cambiato e il Parlamento irlandese ha approvato una legge che autorizza l’aborto su richiesta fino alla dodicesima settimana di gravidanza. Nella sua decisione del 1993, la Corte Costituzionale tedesca affermava che fosse la Legge fondamentale dello Stato a dover proteggere la vita, compresa quella del nascituro, posto che la dignità umana appartiene già al nascituro. Ciò comporta che spetta all’ordinamento giuridico garantirne le condizioni giuridiche di sviluppo nel senso che il nascituro ha pur sempre diritto alla vita, un diritto che non esiste solo quando ad accettarlo è la madre.

Questa posizione moderata della Corte federale tedesca non coincide necessariamente con quella di altre giurisdizioni nazionali. Benché la Corte Costituzionale italiana consideri il feto come una persona in divenire, essa accorda priorità alla salute della madre, come si è detto sopra.

La Corte Arbitrale belga, da parte sua, rifiuta di trattare allo stesso modo il bambino nato e nascituro. Il 19 dicembre 1991, ha concluso che il diritto alla tutela della vita implica proteggere l’essere umano fin dal suo concepimento. Dal momento che i diritti rivendicati in nome del nascituro e quelli della futura madre sono indissolubilmente legati, i giudici europei ritengono che «accorder aux États une marge d’appréciation en matière de protection de l’enfant à naître, exige nécessairement de leur laisser aussi une marge d’appréciation quant à la façon de ménager un équilibre entre cette protection et celle des droits concurrents de la femme enceinte»[83].

  1. Tenuto conto della prima frase del comma 1 dell’articolo 2 della Convenzione Europea, secondo cui “il diritto di tutti alla vita è protetto dalla legge”, gli Stati hanno l’obbligo di adottare misure adeguate per proteggere la vita. Così, il “margine di apprezzamento nazionale” conferisce agli Stati un potere discrezionale che consente a questi di dare seguito alla tutela dei diritti umani garantendone l’applicazione nell’ordinamento giuridico interno, a seconda della loro cultura.

La nozione di potere discrezionale è stata richiamata dalla Commissione Europea dei Diritti Umani nel caso di H.R. c. Norvegia riguardante un aborto non terapeutico praticato contro la volontà del padre. Il ricorrente lamentava che la Legge norvegese aveva autorizzato la compagna ad interrompere la gravidanza[84]. La quistione consisteva nel sapere se la legge norvegese sull’interruzione della gravidanza fosse in contrasto con l’articolo 2 della Convenzione nel momento in cui autorizzava il collegio dei medici ad approvare un aborto nella quindicesima settimana di gravidanza e se a giustificarlo fossero ragioni di carattere sociale. La Commissione si è espressa nel senso della legittimità della legislazione in parola, poiché la quistione doveva considerarsi rientrante nel potere discrezionale dello Stato[85]. La Commissione riconosce infatti che in un settore così delicato, lo Stato norvegese gode di un certo potere discrezionale ai sensi della Convenzione e, dunque, lo Stato può decidere in materia senza violare i principi della Convenzione europea.

Nel caso sopra citato Vo v. Francia, la Corte europea si trovava di fronte ad una donna che intendeva portare a termine la gravidanza e alla quale era stato originariamente pronosticato un nascituro sano, quantomeno in buona salute. Questa gravidanza dovette essere interrotta a seguito di un errore commesso da un medico, sicché la ricorrente ha subito un aborto terapeutico a causa della negligenza di un terzo. La quistione era quindi se, a parte la volontà della madre che agisce in caso di interruzione volontaria di gravidanza, il danno al feto dovesse essere penalmente perseguito ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione, vista la tutela cui il feto aveva diritto. La Corte ha preso anzitutto in esame la diversità a. di concezioni relative all’inizio della vita, b. di culture giuridiche e norme nazionali di protezione, per lasciare così ampio spazio al potere discrezionale dello Stato. Essa ha inoltre condiviso il parere espresso dal Gruppo europeo di etica delle scienze e delle nuove tecnologie in questi termini: «Les instances communautaires doivent aborder ces questions éthiques en tenant compte des divergences morales et philosophiques reflétées par l’extrême diversité des règles juridiques applicables à la recherche sur l’embryon humain […]. Il serait non seulement juridiquement délicat d’imposer en ce domaine une harmonisation des législations nationales mais, du fait de l’absence de consensus, il serait également inopportun de vouloir édicter une morale unique, exclusive de toutes les autres»[86].

Nei primi anni di attività, la Corte europea ha prevenuto la Commissione ricordando, in molte delle sue sentenze, come il margine di apprezzamento nazionale non dovrebbe tradursi in un potere discrezionale tale da dare allo Stato la possibilità di violare i propri obblighi in materia Convenzione europea[87]. Nella sentenza Handyside, la Corte insiste sul fatto che tale margine non è illimitato e che le misure adottate in questo contesto restano sotto il suo controllo[88]. In un un altro caso, Open Door e Dublin Well Woman v. Irlanda, essa precisa che «ne saurait admettre que l’État possède, dans le domaine de la protection de la morale, un pouvoir discrétionnaire absolu et insusceptible de contrôle»[89].

Di tal guisa, la Corte, nella sua giurisprudenza, parrebbe non riconoscere il detto “margine” all’autorità nazionale, apertamente riconosciuto solo nei due ambiti di deroga (art. 15) e restrizioni necessarie in una società democratica (articoli da 8 a 11, articoli 1 e 3, Protocollo Addizionale n. 1).

La latitudine accordata agli Stati in virtù del margine di apprezzamento, può essere contro bilanciata da altri fattori che intervengono nella valutazione della Corte, in primis l’esistenza di un consenso europeo, la gravità della violazione del diritto garantito o l’importanza della sfera di attività protetta. Nasce così l’interpretazione consensuale, da intendersi come elemento essenziale della variazione dei limiti del potere discrezionale concesso agli Stati nell’attuazione delle restrizioni ai diritti. L’interpretazione consensuale della Corte può manifestarsi in due modi: o la Corte europea, nonostante l’assenza di un consenso europeo, annienta il margine apprezzamento dello Stato; ovvero, al contrario, prende opportunamente atto della diversità degli ordinamenti e delle tradizioni giuridiche per consentire allo Stato l’esercizio di un certo margine di apprezzamento[90]. In entrambi i casi, il giudice europeo mantiene sempre il suo margine di interpretazione e controllo. Questi sono pur sempre elementi di natura tale da limitare il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati.

  1. La Corte europea dei diritti dell’uomo pur avendo ripetutamente ricordato che gli Stati occupano una posizione migliore rispetto al giudice internazionale per pronunciarsi su alcune quistioni specifiche, non ha rinunciato al suo potere di controllo e vigilanza, ancorché limitato in ragione dell’ampiezza del margine di apprezzamento. Non è casuale che si parli di controllo di competenza delle giurisdizioni interne. Può trattarsi di uncontrollo di conformità(1) o di un controllo di compatibilità (2) con i principî cardine della Convenzione europea.

Circa il primo punto (verifica di conformità), il controllo di conformità consiste nel rendere conforme i diritti nazionali con il diritto della Convenzione europea. Qualunque sia l’entità del margine di apprezzamento concesso agli Stati su quistioni specifiche, esso deve, per quanto possibile, mantenersi entro i limiti fissati dai principî della Convenzione europea. La conformità si muove contestualmente al requisito dell’identità, ovvero al requisito delle pratiche nazionali che rispettano rigorosamente il comportamento prescritto dalla norma internazionale[91].

In Boso v. Italia, la Corte ha respinto il reclamo secondo cui la legge italiana che autorizza l’interruzione volontaria di gravidanza sarebbe contraria all’articolo 2 della Convenzione. Ha anche chiarito che «l’interruption volontaire de grossesse en question s’était effectuée conformément au droit italien, lequel ménageait un juste équilibre entre les intérêts de la femme et l’intérêt de l’État d’assurer la protection de l’enfant à naître»[92]. Sostenendo che l’interruzione di gravidanza non è contraria all’articolo 2, la Corte ne sottolinea piuttosto la conformità con la Convenzione e con il diritto italiano, il che lascia allo Stato nazionale un ampio margine di apprezzamento in merito al problema in discussione. Oggetto di critica è questa libertà lasciata agli Stati. Inoltre, le critiche rivolte alla Corte sono talvolta servite per rallentare l’integrazione europea visto l’ampio margine di discrezionalità nazionale, con conseguente frammentazione dello spazio europeo; altre volte sono servite per forzare l’integrazione facendo leva su un margine nazionale troppo stretto, che segnerebbe il predominio di una concezione che alcuni stimano essere troppo liberale e individualista dei diritti dell’uomo[93].

Forte di questo precedente, la Corte ha preferito conservare il proprio margine di interpretazione che le permette di verificare la conformità delle misure nazionali ai requisiti della Convenzione. Questo margine di interpretazione della Corte richiama l’idea del principio di proporzionalità[94] o di necessità. Secondo le sentenze Handyside e Sunday Times, la nozione di necessità implica un bisogno sociale imperativo e consente alla Corte, in primo luogo, di determinare se l’ingerenza dello Stato nei diritti individuali sia proporzionata allo scopo legittimamente perseguito, e quindi di verificare che sia stato raggiunto un giusto equilibrio tra l’interesse generale e gli interessi dell’individuo. A questo riguardo, la Corte è portata a confrontare la situazione invocata con le misure restrittive così da determinare se effettivamente le restrizioni a determinati diritti siano necessarie in una società democratica. Questo test di proporzionalità consente alla Corte di svolgere il proprio controllo del margine nazionale di discrezionalità proprio come fosse il controllo di compatibilità.

 

 15.  Verifica della compatibilità.

Se la presenza di principî giuridici comuni agli Stati può comportare il rischio di una compressione del loro margine di apprezzamento nazionale, si deve rilevare che è l’assenza di un denominatore comune nei sistemi giuridici nazionali a consentire allo Stato parte l’esercizio dei detto margine di apprezzamento[95], che verosimilmente porta ad un rafforzamento del controllo e del monitoraggio della Corte. Ad esempio, laConvenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicinanon solo fa attenzione nel definire il termine persona, ma il rapporto esplicativo indica come, in assenza di unanimità sulla definizione, sono gli Stati membri che hanno deciso di far sì che fosse il singolo diritto nazionale a fornire dettagli pertinenti circa gli effetti derivanti dall’applicazione della Convenzione[96]. Lo stesso dicasi per il Protocollo Aggiuntivo sul divieto di clonazione umana e il Protocollo relativo alla ricerca sulle scienze biomediche che non definiscono il concetto di essere umano. Considerazioni non dissimili possono farsi nel caso in cui spetti agli Stati membri fornire i dettagli su questi temi in funzione delle loro specificità culturali, giacché dagli Stati membri ci si attende compatibilità con i principî della Convenzione, atteso che il suo articolo 2 consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa.

Proprio come il controllo di conformità, anche il controllo di compatibilità richiede da parte degli Stati parti l’esercizio di un obbligo corrispondente. Il margine nazionale di apprezzamento implica, pertanto, che ogni Stato conservi la possibilità di adottare le proprie regole in materia di attuazione dei principî sanciti dalla Convenzione, a condizione che queste regole siano sufficientemente vicine al principio di riferimento per conservare con questo la propria compatibilità[97].

La presenza di un controllo di compatibilità dovrebbe consentire un’armonizzazione che eviti l’incompatibilità sia con il diritto internazionale sia con il diritto interno degli altri Stati. Dunque, siamo di fronte a legislazioni molto varie e differenti, alcune delle quali tutelano la salute della madre[98], altre la salute del bambino durante la gravidanza e il parto[99], altre ancora mirano ad evitare aborti clandestini. Il vero dilemma è dunque quello tra il diritto della donna all’aborto e il diritto del nascituro alla vita. Per trovare un terreno comune con i principî della Convenzione europea, la compatibilità dovrebbe basarsi sul requisito di prossimità. Vale a dire, il requisito delle pratiche sufficientemente prossime alla norma internazionale per essere giudicate compatibili[100]. Così, in B. v. Francia, la Corte ha rilevato forti differenze giuridiche, in particolare tra il diritto inglese e francese, e osservando che non c’è ancora un consenso sociale in Europa per quanto concerne il transessualismo, conclude tuttavia che la situazione francese è incompatibile con il rispetto dovuto alla privacy, anche riguardo al margine di apprezzamento. Anche se la Corte ha riconosciuto il margine di discrezionalità allo Stato francese, essa ha tuttavia ritenuto che la violazione contestata alla Francia avesse superata la soglia di accettabilità. Siamo di fronte alla verifica di compatibilità della Corte con cui si chiede agli Stati di rispettare i principî della Convenzione. Lo Stato, secondo il professor Sudre, disporrebbe così solo di un ridotto margine di apprezzamento, cui si affianca un rigoroso controllo europeo che copre sia il diritto nazionale sia la sua applicazione da parte delle giurisdizioni nazionali[101].

 

 16.  Il miraggio di una incerta conclusione.

Dopo aver rilevato a) che né la metafisica né la medicina forniscono una risposta definitiva alla domanda se, e a partire da quale momento, il feto può essere considerato un essere umano[102], b) che in assenza di un consenso europeo su una definizione di natura e di status giuridico del feto, è necessario affermare che, sul piano giuridico, l’articolo 2 della Convenzione europea non tutela il diritto del feto alla vita come persona. Di fronte al pluralismo giuridico e culturale, il diritto alla vita del feto, il suo status giuridico e la sua natura non sono sempre chiaramente definiti, il che espone la dottrina a continue polemiche e controversie sulla quistione dell’aborto. I recenti dibattiti legislativi mostrano come non ci sia sempre una soluzione fissa circa il momento da cui decorre l’inizio del diritto alla vita. Per questo la Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene che non sia né auspicabile, né attualmente possibile, rispondere in astratto alla domanda se il nascituro sia una “persona” nel significato previsto dall’articolo 2 della Convenzione[103].

Anche supponendo che al feto sia garantito il diritto alla vita fin dall’inizio della gravidanza, tale diritto subisce comunque una implicita limitazione, che consente l’interruzione della gravidanza per salvare la salute o la vita della madre. Secondo Jean-Loup Charrier, il riconoscimento al feto di un diritto assoluto alla vita avrebbe una doppia conseguenza: la prima sarebbe quella di non ammettere più l’aborto, legalizzato sempre più liberalmente in quasi tutti gli Stati; il secondo sarebbe da considerare il bambino semplicemente concepito come una persona, il che renderebbe difficile qualsiasi interruzione volontaria di gravidanza, anche ove il proseguimento della gravidanza mettesse in serio pericolo il vita della madre[104].

È sulla base di tutto quanto precede che la Corte europea dei diritti umani ritiene utile rinviare la quistione ai margini di apprezzamento degli Stati, chiamati a decidere secondo la loro tradizione giuridica o culturale. Questo riconoscimento di un ampio margine su quistioni culturalmente sensibili sembra contribuire a priori alla conservazione della diversità culturale, poiché lascia allo Stato il compito di stabilire un giusto equilibrio tra le particolarità culturali della società che rappresenta e i diritti umani. Ciò significa che l’esistenza di un margine nazionale di apprezzamento e di un sistema di controllo e di sorveglianza è necessaria al pluralismo, ma non sufficiente a costruire un diritto comune adeguatamente ordinato per essere prevedibile. Perché è bene aver riconosciuto la diversità di ordinamenti giuridici, ma è auspicabile elaborare un diritto comune per soddisfare le aspettative di quella che si vuole ormai essere la globalizzazione in diritto.

Fondamentalmente, si tratta dell’eterna lotta tra una concezione del diritto come insieme di norme e un’altra concezione fondata piuttosto su un insieme di valori. Se è difficile trovare la giusta via, si deve essere sempre vigili se si vuole mantenere l’equilibrio – già così fragile – tra diritto e cultura.

 

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[1] Gli unici che possono scorgere una possibile rottura nella continuità di questo processo di sviluppo sono coloro che accettano l’esistenza di un’anima proporzionata al corpo e, nel caso specifico dell’essere umano, di un’anima razionale e radicalmente immateriale, con il bisogno di un corpo altamente organizzato. Questa posizione sembra fondarsi su una ‘successione’ di anime: prima vegetativa, poi animale e, infine, razionale, quando il corpo ha raggiunto un sufficiente livello di sviluppo. Se la loro posizione sembra obbligarli a qualificare la gravità di qualsiasi attacco alla vita o all’integrità del feto in funzione del momento in cui viene praticato, essa ne fa un reato particolarmente grave dal momento in cui diventa possibile la presenza dell’anima razionale. Anche prima di allora, però, ossia quando si è ancora in presenza di un’anima vegetativa o animale, la loro posizione a favore dei diritti del feto sarà molto forte, perché non solo come gli altri riconoscono la continuità del processo che porta al formarsi di un essere umano completo, ma vi colgono un processo che porta a un essere la cui natura lo rende più degno di rispetto in ogni momento, anche durante il periodo di gestazione che precede l’infusione dell’anima razionale.

[2] In generale si parla di zigote dal concepimento allo stadio di differenziazione (ci attacchiamo a volte alla prima cella); embrione da questo punto fino alla fine del terzo mese; e infine di feto da quattro mesi fino alla nascita. Nota anche che queste parole non hanno la stessa cosa significato se applicato ad altri animali o piante.

 

[3] In effetti, il DNA di un essere umano è molto vicino a quello di qualsiasi altro essere vivente: scimmia, zanzara, etc.

 

[4] Si tratta di una quistione che va ben oltre lo scopo di questo scritto. Cfr Bonvecchio C., Apologia dei doveri dell’uomo, Milano, 2002 è stato uno dei primi filosofi a porsi il problema di una società molto solerte nella difesa dei diritti, ma disattenta ai doveri.

[5] Mathieu B., La vie en droit constitutionnel comparé. Éléments de réflexion sur un droit incertain, in Revue internationale de droit comparé, 1998, p. 1031. Il concetto del rispetto della dignità umana è presente in molti strumenti giuridici. Così, la Carta delle Nazioni Unite firmata a San Francisco il 26 giugno 1945 afferma solennemente, già dalla prima frase del suo preambolo, la fede dei popoli delle Nazioni Unite «nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana…». Qualche mese dopo, nel Preambolo dell’Atto istitutivo dell’Unesco, sottoscritto a Londra il 16 novembre 1945, si poteva leggere che «la grande e terribile guerra appena terminata è stata resa possibile dal rinnegamento dell’ideale democratico di dignità, di uguaglianza e di rispetto della persona umana e della volontà di sostituirlo utilizzando l’ignoranza e il pregiudizio, dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini». Tre anni dopo, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, proclama, nel primo “Considerato”, che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Questa formulazione sarà ripetuta testualmente nel Preambolo del Patto internazionale sui diritti civili e politici e in quello sui diritti economici, sociali e culturali, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 Dicembre 1966. L’articolo 10, comma 1 del primo di questi due Patti sancisce che «Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana Non diversamente da quanto sopra, anche l’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni umanitarie firmate a Ginevra il 12 agosto 1949, al comma 1, par. c) recita «gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti».

[6] Si veda l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 in cui si afferma che «ogni individuo ha diritto alla vita, libertà e sicurezza della propria persona». Il Patto internazionale su diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 (entrato in vigore il 3 gennaio 1976) specifica nel suo articolo 6, comma 1 che «Il diritto alla vita è inerente alla persona umana. Questo diritto deve esser protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita». La Convenzione europea sui diritti dell’uomo, aperta alla firma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953, dedica l’intero articolo 2 al diritto alla vita. Il suo primo paragrafo recita: «1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: (a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; (b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; (c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione». La Convenzione americana sui diritti umani, firmata il 22 novembre 1969 ed entrata in vigore anche il 18 luglio 1978, ha dedicato il suo articolo 4 al diritto alla vita, che, come specificato al comma 1, ha inizio dal concepimento: « 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita. Tale diritto è protetto dalla legge e, in generale, dal momento del concepimento. Nessuno sarà arbitrariamente privato della vita». La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata il 27 giugno 1981 ed entrata in vigore il 21 ottobre 1986, afferma nel suo articolo 4 che «La persona umana è inviolabile. Ogni essere umano ha diritto al rispetto della sua vita e all’integrità fisica e morale della sua persona. Nessuno può essere arbitrariamente privato di questo diritto».

[7] Trimarco Marciali A., Droits fondamentaux et protection de la vie humaine prénatale dans la jurisprudence administrative, in Revue du droit public et de la science politique en France et à l’Etranger , 2009, n. 3, p. 748. Per la Corte europea dei diritti dell’uomo,il diritto alla vita constituisce l’une des valeurs fondamentales des sociétés démocratiques» : Mac Cann c. le Royaume-Uni, arrêt du 27 septembre 1995, série A n° 324, § 147. Per il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, cfr. il caso Baboeram c. le Surinam, n° 146/1983, § 697, decisione della Commissione del 4 aprile 1985 che definisce il diritto alla vita come «le droit suprême de l’être humain». Il Comitsato dei diritti umani lo considera come «le droit le plus fondamental» (Judge c. Canada, constatations du 5 août 2003, § 10.3) ovvero come «faisant partie du jus cogens» (Nydia Bautista de Arellano c. Colombie, 27 octobre 1995, § 6.6).

[8] Schooyans M., L’enjeu politique de l’avortement, Paris, 19912, p. 11.

[9] Van Aggelen J. G.C., Le rôle des organisations internationales dans la protection du droit à la vie, Bruxelles, 1986, p. 2.

[10] Konate W., Universalité des droits de l’homme et mondialisation, thèse de doctorat, Montpellier, Université de Montpellier III, 2011.

[11] Sudre F., Droit international et européen des droits de l’homme, Paris, 201110, pp. 227- 237.

[12] COMMISSION DE RÉFORME DU DROIT DU CANADA, Les crimes contre le foetus, Document de travail 58, Ottawa, Ministère des Approvisionnements et Services Canada, 1989, p. 52.

[13] François D., La situation juridique de l’enfant à naître en droit français : entre pile et fac, in Revue générale de droit, 1999/2000, p. 607.

[14] Vo c. France [GC], n° 53924/00, §. 82, CEDH 2004-VIII.

[15] HERVIEU N., L’avortement devant la Cour de Strasbourg : une « morale » de l’histoire bien décevante (Cour EDH, G.C. 16 décembre 2010, A.B.C. c. Irlande), combatsdroitshomme.blog.lemonde.fr, 19 décembre 2012, consultabile al sito http://combatsdroitshomme.blog.lemonde.

[16] Lawless c. Irlande (no 3), arrêt du 1er juillet 1961, série A n° 3.

[17] DELMAS-MARTY M., IZORCHE M.-L., Marge nationale d’appréciation et internationalisation du droit. Réflexion sur la validité formelle d’un droit commun pluraliste , R.I.D.C. , 2000, p. 760.

[18] Handyside c. Royaume Uni, arrêt du 7 décembre 1976, série A no 24.

[19] Wingrove c. Royaume-Uni, arrêt du 25 novembre 1996, in Recueil des arrêts et décisions, 1996-V, § 58.

[20] Sudre F., Droit international et européen des droits de l’homme, Paris, 201110, p. 228.

[21] Handyside c. Royaume Uni, cit.a, noe 21, § 48.

[22] Sudre F., op. cit., p. 229.

[23] Sunday Times c. Royaume Uni (no 1), arrêt du 26 avril 1979, série A no 30, § 61.

[24] Handyside c. Royaume Uni, préc., note 21, § 48.

[25] Evans c. Royaume-Uni [GC], no 6339/05, § 79, CEDH 2007-I.

[26] Ringelheim J., Diversité culturelle et droits de l’homme. La protection des minorités par la Convention européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 2006, p. 1.

[27] Vo c. France, cit., § 40.

[28] Il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore l’1 maggio 1999, ha modificato il Trattato istitutivo della Comunità europea (Trattato CE) e il Trattato dell’Unione europea (Trattato UE)..

[29] Vo c. France, cit., § 40.

[30] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)s, Buckley c. Regno Unito, sentenza del 25 settembre 1996, in Raccolta, 1996-IV, § 75.

[31] Connors c. Royaume-Uni, no 66746/01, § 85, CEDH 2004-I.

[32] Connors c. Royaume-Uni, cit., § 84.

[33] Tyrer c. Royaume-Uni, arrêt du 25 avril 1978, série A no 26, § 31.

[34] Trimarco Marciali A., Droits fondamentaux et protection de la vie humaine prénatale dans la jurisprudence administrative, in Revue du droit public et de la science politique en France et à l’étranger, 2009, p. 743.

[35] ARENDT H., La crise de la culture, Huit exercices de pensée politique, Paris, 1972, p. 59 ; Pierron J-Ph., Le droit à la vie : point aveugle ou horizon d’attente des droits de l’homme?, in Levinet M. (dir.), Le droit au respect de la vie au sens de la Convention européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 2010, p. 80.

[36] Manuila A., Dictionnaire français de médecine et de biologie, t. III, Paris, 1972, p. 1151.

[37] X c. Royaume-Uni, no 8416/79 décision de la Commission du 13 mai 1980, Décisions et rapports 19, p. 260, par. 12.

[38] Tra gli altri, Levinet M. (dir.), op. cit.; Mathieu B., Le droit à la vie dans les jurisprudences constitutionnelles et conventionnelles européennes, Bruxelles, Éditions du Conseil de l’Europe, 2005; Ramacharan B. G.(eds), The Right to Life in International Law, Dordrecht, 1985; Tomuschat Ch., Lagrange E., Oeter S.(eds), The Right to Life, Dordrecht, 2010; Couzigou I., L’incidence du droit à la vie sur le droit à un procès équitable dans la jurisprudence du Comité des droits de l’homme, in Revue générale de droit international public, 2010, p. 343; Gölcüklü F., Le droit à la vie dans la jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme, in Mélanges en hommage à Louis Edmond Pettitti, Bruxelles, Bruylant, 1998; Tulkens F., Le droit à la vie et le champ des obligations des États dans la jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme, in Mélanges Gérard Cohen-Jonathan – Libertés, justice, tolérance, vol. 2, Bruxelles, 2004.

[39] Per il Comitato dei diritti dell’uomo, v. tra gi altri, C. n° 1440/2005, Aalbersberg et consorts c. Pays-Bas, const. du 14 août 2005; C. n° 181/1984, Arévalo c. Colombie, const. du 22 novembre 1989; C. n° 563/1993, Bautissa de Arellana c. Colombie, const. du 13 novembre 1995; C. n° 992/2001, Bousroual c. Algérie, const. du 24 avril 2006; C. n° 1077/2002, Carpo c. Philippines, const. du 15 mai 2003; C. n° 913/2000, Chan c. Guyane, 23 janvier 2006; C. n° 469/1991, Charles Chitat Ng c. Canada, U.N. Doc. CCPR/C/49/D/469/1991 (1994); C. n° 821/1998, Chongwe c. Zambie, const. du 9 novembre 2000; C. n° 539/1993, Cox c. Canada, const. du 9 décembre 1994; C. n° 1422/2005, El Hassy c. Jamahiriya arabe libyenne, const. du 24 octobre 2007, C. n° 1196/2003, Fatma Zohra Boucherf c. Algérie, N.U. Doc. CCPR/C/86/D/1196/2003 (2006). Per la Corte europea dei diritti dell’uomo vedi tra gli altri, Andronicou et Constantinou c. Chypre (exceptions préliminaires), arrêt du 9 octobre 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-VI; Alikaj et autres c. Italie, n° 47357/08, CEDH 2011; Al Skeini et autres c. Royaume-Uni [GC], n° 55721/07, CEDH 2011; Berktay c. Turquie (exceptions préliminaires), n° 22493/93, CEDH 2001; Bubbins c. Royaume-Uni, n° 50196/99, CEDH 2005-II; Çakici c. Turquie [GC], n° 23657/94, CEDH 1999-IV; Celniku c. Grèce (déc.), n° 21449/04, CEDH 2007; Chypre c. Turquie [GC], n° 25781/94, CEDH 2001-IV; Çoselav c. Turquie (satisfaction équitable), n° 1413/07, CEDH 2012; Csiki c. Roumanie, n° 11273/05, CEDH 2011. Per la Corte interamericana dei diritti dell’uomo, vedi tra gli altri, Communauté indigène Sawhoyamaxa c. Paraguay, 29 mars 2006, Fond et Réparations, série C n° 146; Goiburù et autres c. Paraguay, Fond, Réparations et Frais, arrêt du 22 septembre 2006, série C n° 153; Hilaire, Constantine et autres c. Trinité et Tobago, Fond et Réparations, 21 juin 2002, série C n° 94; Institut de rééducation des mineurs c. Paraguay, Fond et réparations, 2 septembre 2004, série C n° 112; Massacre de Mapiripàn c. Colombie, Fond et Réparations, 7 mars 2005, série C n° 134. Pour la Cour africaine des droits de l’homme et des peuples, v. tra gli altri, Achuthan et Autres (pour le compte de Banda et Autres) c. Malawi, (2000) RADH 142 (CADHP 1995); Amnesty International et Autres c. Soudan, (2000) RADH 323 (CADHP 1999); Avocats Sans Frontières (pour le compte de Bwampamye) c. Burundi, (2000) RADDH 52 (CADHP 2000); Commission africaine des droits de l’homme et des peuples (pour le compte de la Communauté Ogiek du Kenya) c. République du Kenya, ordonnance portant mesures provisoires, requête n° 006/2012 du 15 mars 2013; Commission Nationale de Droits de l’Homme et des Libertés c.Tchad, (2000) RADDH 343 (CADHP 1995); Constitutional Rights Project (pour le compte de Akamu et Autres) c. Nigeria. (2000) RADDH 181 (CADHP 1995); Femi Falana c. Union africaine, requête n° 001/2011 du 26 juin 2012; Free Legal Assistance Group et Autres c. Zaïre, (2000) RADH 299 (CADHP (1995); Forum of Conscience c. Sierra Leone, (2000) RADDH 318 (CADHP 2000).

[40] Okechukwu S., The Right to Life and the Right to Live. Ethics of International Solidarity, Frankfurt au Main, 1990, p. 181.

[41] D’argent P., Le droit à la vie en tant que jus cogens donnant naissance à des obligations erga omnes, in Tomuschat Ch., Lagrange E., Oeter S. (eds), The Right to Life, Leiden/Boston, 2010, p. 411.

[42] Pierron J-Ph, Le droit à la vie : point aveugle ou horizon d’attente des droits de l’homme? », in Levinet M. (dir.), Le droit au respect de la vie au sens de la Convention européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 2010, pp. 73-77.

[43] Sartre J-P, L’esistenzialismo e l’umanesimo, Milano, 2016, p. 34.

[44] Lambert P., La protection des droits intangibles dans les situations de conflit armé, in RTDH, 2000, p. 249.

[45] Vo c. France, cit., § 52.

[46] Ibidem.

[47] Sudre F., op. cit., p. 303.

[48] Rolland L., Le statut juridique du fœtus : Analyse rhétorique, mémoire de maîtrise, Montréal, 1992.

[49] Vo c. France, cit., § 40.

[50] Seriaux A., Les personnes, Paris, Que sais-je?, Paris, 1992, pp. 6-7.

[51] Dworkin R., Life’s Dominion. An Argument about Abortion and Euthanasia, New York, 1993, p. 35.

[52] Vo c. France, cit., § 71.

[53] Ivi., § 72. i.

[54] Ivi, § 52.

[55] Convention américaine relative aux droits de l’homme, 22 novembre 1969, (1979) 1144 R.T.N.U. 123 (ci-après la Convention américaine).

[56] Sudre F., op. cit., p. 303 nota 24.

[57] Déclaration universelle des droits de l’homme, Rés. 217 A (III), Doc. N.U. A/810 (1948), p. 71.

[58] Sudre F., op. cit., p. 303.

[59] Convention sur la protection des droits de l’homme et de la dignité de l’être humain à l’égard des applications de la biologie et de la médicine (Convenzione sui diritti umani e la biomedicinaConvenzione di Oviedo), 4 avril 1997del 4 aprile 199, entrata in vigore l’1 dicembre 1999

[60] Protocole additionnel à la Convention sur les droits de l’homme et la biomédecine portant interdiction du clonage d’êtres humains, 12 janvier 1998, S.T.C.E. no 168. DNA nucleare, o acido deossiribonucleico nucleare o nDNA, è un termine che indica specificamente il DNA contenuto nel nucleo cellulare di un organismo eucariotico. L’nDNA codifica per la maggior parte del genoma eucariotico, la parte restante viene codificata dal DNA mitocondriale (mtDNA) e dal DNA plastidiale. L’nDNA è concorde all’eredità mendeliana, le informazioni provengono da entrambi i genitori, sia dal padre sia dalla madre, non come l’mtDNA che viene trasmesso per eredità materna.

[61] Vo c. France, cit., § 36.

[62] Ivi § 82.

[63] Evans c. Royaume-Uni [GC], no 6339/05, CEDH 2007.

[64] Paton c. Royaume-Uni, 1980, 3 EHRR 408, § 9.

[65] Ibidem.

[66] X c. Royaume-Uni, cit., nota 43, p. 244.

[67] Ibidem, p. 260, § 12.

[68] Vo c. France, cit., nota 17, § 82.

[69] Vo c. France, cit., nota 17, § 19.

[70] Constitution de la Roumanie, art. 22, 1 c., republiée en 2003, n° 767 du 31 octobre 2003 : «Le droit à la vie, ainsi que le droit à l’intégrité physique et psychique de la personne sont garantis», in https://cdn.accf-francophonie.org/2019/03/roumanie-constitution-2003.pdf.

[71] Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania, art. 2 : «Ognuno ha diritto alla vita e all’integrità fisica»; Costituzione della Finlandia, art. 7, «Ognuno ha diritto alla vita».

[72] Arbour M.-E., Lacroix M., Le statut juridique du corps humain ou l’oscillation entre l’objet et le sujet de droit, 40 R.D.U.S., 2009-2010, p. 242, consultabile in

www.usherbrooke.ca/droit/fileadmin/sites/droit/documents/RDUS/volume_40/Arbourlacroix.pdf

[73] Diesse F., op. cit., p. 610.

[74] Handyside c. Royaume Uni, cit., nota 21, § 48.

[75] Affaire Linguistique belge, arrêt du 23 juillet 1968, série A no 6.

[76] Delmas-Marty M., M.-L-Izorche, op. cit. p, 61, nota 20.

[77] Ibidem.

[78] Handyside c. Royaume Uni, cit., nota 21, § 48.

[79] Sudre F., op. cit., nota 24, p. 229.

[80] Tribunale ordinario di Spoleto, ordinanza del 3 gennaio 2012, iscritta al n. 60 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2012.

[81] Cfr. Corte Costituzionale, Ordinanza 196 del 20.06.2012, in G.U. 25/07/2012.

[82] La costituzione irlandese del 1937 è stata rivista nel 1983 e poi nel 1992.

[83] Open Door et Dublin Well Woman c. Irlande, arrêt du 29 octobre 1992, série A no 246-A, § 237.

[84] Legge n. 50 del 13 giugno 1975 sull’interruzione di gravidanza emendata il 16 giugno 1978, articolo 2.

[85] R.H. c. Norway (decision on admissibility), decision of 19 May 1992, ECHR, n. 17004/90.

[86] Vo c. France, cit., § 82.

[87] Handyside c. Royaume-Uni, cit., nota 21, § 49.

[88] Ibidem.

[89] Ibidem.

[90] Delmas-Marty M., Izorche M.-L., op. cit., p. 761.

[91] Ibidem, p. 763.

[92] Boso v Italy (déc.), n°. 50490/99, CEDH 2002-VII.

[93] Delmas-Marty M., Izorche M.-L., op. cit., p. 760.

[94] Van Drooghenbroeck S., La proportionnalité dans le droit de la Convention européenne des droits de l’homme. Prendre l’idée simple au sérieux, Bruxelles, 2001, p. 1.

[95] Sudre F., op. cit., p. 234 ritiene che la presenza o l’assenza di un denominatore comune ai sistemi giuridici degli Stati sia un elemento decisivo del controllo della Corte.

[96] Vo c. France, cit., § 84.

[97] Delmas-Marty M., Izorche M.-L., op. cit., p. 758.

[98] Convention européenne, cit., art. 2.

[99] Convention américaine, cit., art. 4.

[100] Delmas-Marty M., Izorche M.-L., op. cit., p. 761.

[101] Sudre F., op. cit., p. 237.

[102] Vo c. France, cit, § 51.

[103] Ibidem.

[104] Charrier J-L., Code de la Convention européenne des droits de l’homme. Textes – commentaires – jurisprudence – conseils pratiques – Bibliographie, Paris, 2005, pp. 28-29.

 

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Note Legali

 

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