The relationship between criminal trial and life, despite being little treated at a regulatory level, intersects fundamental values in the dynamics of the trial.
di Filippo Giunchedi, Esq.,
Professore associato di Diritto processuale penale nell’Università Niccolò Cusano
Accettato: 29 novembre 2022 – Pubblicato: 16 dicembre 2022.
Il presente contributo prima di essere pubblicato è stato sottoposto a procedura di referaggio (peer review) in base al regolamento editoriale della Rivista.
SOMMARIO:
1. Il quadro normativo di riferimento.
Sebbene il processo penale abbia riguardo alla vita delle persone[1], diversamente dal diritto penale sostanziale ove il termine vita è ricorrente[2], nel codice di rito criminale il lemma vita costituisce una rarità e lo si ritrova solo in cinque ipotesi che attengono a profili variegati.
La prima norma che tratta della vita è l’art. 224-bis c.p.p. relativo ai provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono – qualora risulti assolutamente indispensabile per la prova dei fatti – il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale in quanto comportano il prelievo coattivo di capelli, peli o mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici. Il limite all’accertamento dei fatti è costituito, pertanto, dal divieto di disporre operazioni che possono mettere in pericolo la vita della persona sottopostavi.
Passando ad altro settore, altrettanto delicato in quanto involge valori e interessi tra loro contrastanti (libertà personale e presunzione di innocenza, da un lato; tutela della collettività, dall’altro), il termine vita compare in relazione alla misura cautelare degli arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.). Il legislatore prevede che qualora l’imputato sottoposto a detta misura cautelare coercitiva non possa provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita, il giudice possa autorizzarlo ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze ovvero per esercitare una attività lavorativa.
Sempre in tema di limitazione della libertà personale, la polizia giudiziaria gode della facoltà di disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi è colto in flagranza di delitti attinenti la sfera sessuale o con riguardo ai maltrattamenti della persona offesa, in costanza di fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa (art. 384-bis c.p.p.).
In altro ambito, quello dei procedimenti speciali, un istituto di recente conio, la sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 464-bis e segg. c.p.p.), finalizzato ad estinguere il reato sulla scorta di un percorso risocializzante e riparativo da parte dell’imputato, prevede che il giudice, onde decidere sulla concessione della sospensione e per determinare gli obblighi e le prescrizioni cui eventualmente subordinarla, possa acquisire tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato.
Da ultimo, il termine vita lo si ritrova in una norma volta a disciplinare lo svolgimento dell’udienza, la quale, quando ciò può nuocere al processo e alle persone ivi coinvolte, può svolgersi a porte chiuse (art. 472 c.p.p.). Uno di questi casi è costituito dai dibattimenti relativi ai delitti a sfondo sessuale nei quali la vittima può chiedere una deroga allo svolgimento dell’udienza nella forma pubblica, chiedendo di procedere a porte chiuse[3]. Per mantenere coerenza con la ratio della disposizione non sono ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa qualora non risultino necessarie alla ricostruzione del fatto.
2. Modelli processuali e cognitivismo garantista.
Così delineato l’esangue quadro normativo del codice di procedura penale italiano in riferimento alla vita, cerchiamo di comprendere le ragioni che nella storia del processo penale le hanno offerto una tutela differente benché ammanti l’intero procedimento: dalla fase delle indagini al post rem iudicatam.
Ed in questo caso è opportuno richiamare le ideologie del processo penale[4] le quali, nel corso dei secoli, delle legislazioni e dei diversi modelli processuali che si sono susseguiti, hanno segnato in termini differenti l’accertamento e le modalità con cui questo debba svolgersi, andando ad incidere proprio sul bene della vita: da quella del soggetto sottoposto al processo in quanto accusato, alla vittima che postula la giustizia ed eventualmente un ristoro di ordine economico.
È sufficiente ricordare le forme di coercizione verso il reo – tipiche del Medioevo – per spingerlo ad ammettere responsabilità non ancora accertate.
E se ciò costituisce una situazione estrema, non si può tacere del metodo che, apparentemente, incide in misura meno marcata sul bene vita, ma può causarvi non poco nocumento.
Il passaggio dal processo inquisitorio a quello accusatorio costituisce l’esempio di quanto appena affermato. Un conto è consentire ad un soggetto di subire il peso di un’indagine sapendo che sarà l’accusa a dover dimostrare la sua responsabilità producendo prove (modello accusatorio) ed altro il dover dimostrare la propria innocenza pur consapevoli di essa, talvolta senza poter fruire degli strumenti per farlo (modello inquisitorio).
Non è necessario essere degli esperti processualpenalisti per comprendere l’inevitabile intersezione tra i vari modelli, posto che costituirebbe un vacuo formalismo pensare ad un concetto di purismo ideologico[5] con paratie che non consentono ai tratti dell’uno di influenzare quelli dell’altro. Ciò a testimonianza del fatto che l’opzione per una metodologia di accertamento non impermeabilizza dall’infiltrazione di venature dell’altra.
Gli esempi nella storia del nostro processo penale sono innumerevoli. Limitandoci all’archetipo attuale non si possono dimenticare i “rintocchi delle campane a morto” della Consulta[6], la quale nel 1992, nel segno della ricerca della verità, quale fine primo ed ineludibile del processo penale, tradì un modello di accertamento che aveva quale vessillo il contraddittorio per la prova, pietra miliare dell’euristica, ripudiando con ciò apporti conoscitivi raccolti solipsisticamente, retaggio di una cultura inquisitoria.
Metodo di accertamento quello accusatorio che, invece, costituisce una garanzia per chi subisce il processo e le conseguenze che ne derivano, talvolta con riflessi sul bene primario vita.
Ecco la ragione per cui occorre recuperare il metodo e preservarlo dalle sempre più penetranti spinte populistiche[7] che, in nome di un ideale di giustizia, sono pronte a sacrificare sull’altare dell’efficientismo e della giustizia prèt à porter il soggetto accusato, chiamato a rispondere non del fatto che gli viene addebitato, ma a fungere da agnello sacrificale in vista di interessi estranei al processo, ovvero le finalità di politica criminale.
Eppure, negli anni Sessanta del secolo scorso, nel pieno di una stagione di stampo inquisitorio, un illustre processualpenalista, Franco Cordero, ricordava che «la caccia vale più della preda»[8], a testimonianza del fatto che nel corso dell’accertamento penale non occorre avere di mira il risultato che, invece, deve costituire il naturale epilogo di un percorso gnoseologico svolto con le garanzie previste dal legislatore.
Purtroppo, il garantismo è sempre stato applicato ad intermittenza con perniciose ricadute sul processo e sui suoi protagonisti (recte sulla vita dei suoi protagonisti).
Barlumi positivi si scorgono, ad esempio, in un processo politico, quello della strage alla Stazione di Bologna del 2 agosto 1980, ove in riferimento all’alibi fallito di un imputato – per ciò stesso ritenuto colpevole dai giudici di merito secondo il fallace sillogismo in forza del quale un innocente non ha ragione di mentire – le Sezioni unite della Cassazione hanno spiegato come «la costruzione dell’alibi mentre è indicativ[a] certamente di una maliziosa preordinazione difensiva sintomatica, non per questo riporta tuttavia alla necessaria conseguenza logica della responsabilità, restando aperta la possibilità, niente affatto astratta, del ricorso a tale strumento da parte anche dell’innocente per la sua iattura eventualmente a corto di argomenti difensivi di fronte al peso di pregnanti e preoccupanti elementi a suo carico»[9]. Passaggio assai eloquente su come un soggetto possa mentire per salvare sé stesso da una condanna ingiusta.
Ma, in senso opposto, si registra il ritorno ad una cultura inquisitoria in occasione di altra significativa decisione, quando, in presenza di un sequestro effettuato non osservando l’ortodossa disciplina dell’ancillare attività di perquisizione, le Sezioni unite della Cassazione, in spregio alla teoria dei frutti dell’albero avvelenato e quindi alla propagazione delle invalidità, hanno invocato il “male captum, bene retentum”[10] a salvaguardia di un risultato probatorio conseguito in spregio alle regole e alle garanzie e, quindi, con riflessi negativi sull’accusato.
3. Conclusioni.
All’esito di queste considerazioni, benché rapsodiche, possiamo offrire risposta al perché il termine vita compaia con così poca frequenza nel tessuto codicistico. Riteniamo che il suo scarso utilizzo, nonostante la vita sia un bene strettamente legato al processo penale, consenta di graduare – ma, forse, sarebbe più corretto utilizzare il verbo “offuscare” – le garanzie che si pongono a tutela della stessa, quasi che a non menzionarla esplicitamente la sua lesione faccia meno eco.
Eppure, si è visto, limpidi esempi di tutela delle garanzie si sono riscontrati rompendo un silenzio che non si addice ad un processo che si proclama giusto, ma che, per essere tale deve volgere dalla mera enunciazione alla effettiva celebrazione.
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[1] Si pensi al fatto che con la sentenza si decide della vita dell’imputato, assoggettabile ad una pena limitativa della libertà personale che, inevitabilmente, ha riverberi sulla esistenza di questa persona. Allo stesso tempo, il processo ha quale finalità quella di verificare se si sia verificato un fatto illecito che, talvolta, ha riflessi sulla vita altrui (dall’omicidio alle lesioni, passando per altre forme di sofferenza che incidono sulla vita della vittima, come lo stalking).
[2] Il lemma vita lo ritroviamo in ben ventiquattro articoli (61, 103, 104, 105, 108, 133, 228, 276, 280, 295, 301, 452-sexies, 575, 580, 583, 602-ter, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-undecies, 612-bis, 615-bis, 688 e 695), alcuni di parte generale e la maggior parte relativi a singole fattispecie, ove proprio la vita è il bene giuridico da tutelare.
[3] Nel caso di persona offesa minorenne la facoltà diviene un obbligo.
[4] Per un affresco delle stesse, per tutti, L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 2004, passim.
[5] Sul tema esemplare l’insegnamento di G. Conso, Accusa e sistema accusatorio (dir. proc. pen.), in Enciclopedia del diritto, vol. I, Giuffré, Milano, 1958, p. 334.
[6] Si tratta del principio espresso dalla Corte costituzionale, sentenze n. 254 e n. 255 del 1992.
[7] Aspetto mirabilmente trattato nel pamphlet di M. Donini, Populismo e ragione pubblica, Mucchi editore, Modena, 2019, passim.
[8] F. Cordero, Diatribe sul processo accusatorio, in Id., Ideologie del processo penale, Giuffré, Milano, 1966, p. 220.
[9] Cass., Sez. un., 12 febbraio 1992, Ballan ed altri.
[10] Cass., Sez. un., 27 marzo 1996, Sala.
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